di Ernesto Galli della Loggia
Con il profilarsi di una grande area di centro- centrosinistra egemonizzata dal Pd di Renzi e ultramaggioritaria in Parlamento — dunque padrona incontrastata di tutti i livelli di governo del Paese — è inevitabile che si torni a parlare di trasformismo, a temerne una qualche reviviscenza. C’è chi pensa però che si tratti di timori infondati. C’è chi come Michele Salvati, infatti (Corriere del 23 maggio), si domanda del tutto ragionevolmente (all’apparenza, come dirò): «Be’, ma se l’attuale governo soddisfa gli elettori, non vedo cosa ci sia di male se esso viene sostenuto da ceti sociali e da politici che in passato avevano appoggiato governi di diverso colore». Non c’è nulla di male, per l’appunto: tanto è vero, infatti, che non è certo questo il trasformismo. Il trasformismo non consiste negli elettori che cambiano opinione, ci mancherebbe! Semmai consiste nel fatto che cambiano opinione gli eletti (che è alquanto diverso: ma su ciò più tardi). E neppure consiste nella mancanza in un sistema politico di alternative di governo per la presenza di vaste forze politiche antisistema, la quale obbliga le forze pro-sistema, anche se per molti aspetti diverse tra di loro, a stare insieme alla guida del Paese. Da questo punto di vista, perciò, contrariamente a ciò che sembra pensare Salvati, io non credo che ci sia stato nulla di trasformistico né nell’Italia dell’alleanza centrista degasperiana né in quella del centro-sinistra Dc-Psi. In entrambi quei casi, infatti, il superamento delle diversità tra i partiti era giustificato dalla presenza di una causa di forza maggiore sotto forma per l’appunto di una forza antisistema. È invece quando non c’è questa causa, e solo allora, che si ha il trasformismo. Come accadde precisamente nei lunghi anni dal 1876 fino all’introduzione del suffragio universale maschile nel 1913: anni in cui il numero complessivo dei deputati socialisti, «clericali» e radicali antigovernativi — cioè le vere forze che possono definirsi antisistema — non superò mai in realtà gli 80-90. E si affermò così, nella dissoluzione dei partiti, il governo personale dei grandi «dittatori parlamentari»: Depretis, Crispi, Giolitti.
Il trasformismo, insomma, si ha quando — come fu nell’Italia postrisorgimentale e come potrebbe essere in quella di domani — a causa dell’inadeguatezza delle leadership, dell’incapacità di rinnovarsi ed essere in sintonia con i tempi, della difficoltà di elaborare piattaforme programmatiche credibili, del venir meno di spinte ideali, di una diffusa stanchezza o abulia delle élite sociali — le identità politico-culturali dei partiti, le loro fisionomie storico-ideali, e dunque anche i motivi delle loro differenziazioni e contrasti, s’indeboliscono fino a scomparire.
È allora che questo vuoto tende inevitabilmente a essere riempito da una personalità capace e volitiva. La quale quasi naturalmente, starei per dire al di là di ogni suo stesso consapevole disegno, diviene punto di attrazione e di coagulo non più di forze politiche, ormai virtualmente inesistenti, ma di tutti o pressoché tutti gli attori del sistema politico, già tali o aspiranti comunque ad avervi una parte. Ma è allora, altresì, che nel sistema politico diviene centrale non il problema del governo ma la questione del potere. Dunque non, per esempio, quella disponibilità a «collaborare al compito gravoso di costruire un Paese moderno e rispettato» — che Salvati attribuisce nel suo articolo agli attori del trasformismo depretisino —, non il problema cioè di trovare una linea programmatica adeguata che veda l’accordo di tutti, bensì, il problema di trovare un posto a tutti. A tutti quelli che «ci stanno»: un posto nelle liste elettorali, nel sottogoverno, dove che sia. Ed è allora che gli attori già presenti o aspiranti di cui sopra sono spinti individualmente a deporre ogni passata appartenenza, ad abbracciare qualunque idea, qualunque fedeltà, a sottoscrivere qualunque impegno, pur di ottenere il suddetto posto. Alla fine, infatti, sono i trasformisti la sostanza ultima e più vera del trasformismo. Quelli che con la loro presenza ne costituiscono la prova irrefutabile.
Personalmente non mi spingo a sostenere che quanto sta accadendo in Italia costituisca già oggi questa prova. Che cioé l’abile leadership di Matteo Renzi, enfatizzata al massimo dalla liquefazione di Forza Italia e dalla disintegrazione dell’antica identità postcomunista del Pd, ci stia conducendo ad una fase di trasformismo: anche se mi pare difficile negare che questo pericolo in realtà vi sia. Ciò che mi sento invece sicuro di dire è che se il trasformismo è ciò che ho detto, nulla che vi rassomigli potrà mai «favorire» quel «processo riformatore» come invece vorrebbe Michele Salvati, con un ottimismo della volontà forse in questo caso un po’ troppo volenteroso .