Quando nel 1999 la sharia è stata introdotta in 12 Stati della Nigeria del Nord, un’area dove vivono oltre 50 milioni di abitanti, Hauwa Ibrahim, avvocata, attivista per i diritti umani e docente ad Harvard, con la doppia cittadinanza nigeriana e italiana, ha deciso di dedicare gran parte della sua attività legale alla protezione pro bono delle donne condannate alla lapidazione per adulterio. Per nulla scoraggiata da quella che tutti consideravano una mission impossible, chiese insistentemente – finendo per ottenerlo – di essere la prima donna a entrare come avvocato difensore in una corte islamica e riuscì a liberare più di 150 donne.
Le sue arringhe, che utilizzavano gli stessi principi della Sharia per mettere in crisi l’impianto accusatorio, hanno fatto il giro del mondo e le continue lotte per i diritti umani in Nigeria e in molti altri Paesi, oltre a conquistarle il Premio Sakhharov nel 2005, ne hanno fatto un simbolo. Preceduta da tale fama, nel 2014, all’indomani del noto rapimento delle 276 studentesse nel Nord della Nigeria, ricevette direttamente dall’allora presidente Goodluck Jonathan la richiesta di entrare a far parte della Commissione presidenziale istituita ad hoc per coordinare le ricerche. Dei 27 membri, lei era l’unica indipendente. «Non facevo parte di nessun organismo – spiega – né di partiti o intelligence e ciò mi consentì margini di movimento maggiori. Ascoltammo in varie occasioni le presentazioni di esponenti di vari servizi segreti occidentali che spiegavano come utilizzare armi o droni per le operazioni che avrebbero dovuto condurci alla liberazione delle ragazze rapite. Nel corso di una riunione, presi la parola e, dopo aver spiegato le mie esperienze di difesa delle donne e di profonda conoscenza della società del mio Paese, dissi: ‘Va bene l’hard power, ma perché non puntare sulle mamme?’».
La sua idea – accolta con molta freddezza e diffidenza da Goodluck Jonathan e dal resto dei membri della Commissione – mirava ad affiancare se non sostituire del tutto, il potere delle armi e della tecnologia bellica con il soft power delle donne. Rispondere all’ideologia violenta con altra violenza porta spesso a risultati catastrofici. Il legame fortissimo che nell’Islam lega i figli maschi alle madri, invece, e che rende il rapporto quasi sacro, poteva, secondo Ibrahim, rappresentare un favoloso alleato nella ricerca delle ragazze prima e della riconciliazione nazionale poi. Bastava provare a ricrearlo.
Il presidente, per quanto recalcitrante, le affiancò un generale dell’esercito e le diede carta bianca. Ibrahim, protetta dai soldati, ma anche libera di agire, frequenta per mesi i villaggi da cui molti dei giovani appartenenti a Boko Haram catturati e imprigionati provengono ed entra in contatto con le loro madri. Tutte erano convinte che i loro figli fossero morti, mentre i ragazzi, certi che le mamme non volessero avere più a che fare con loro. L’avvocata propone a una ventina di donne di incontrare direttamente i propri figli e quattro accettano. «Entrammo nella prigione con le madri. I giovani non sapevano nulla. Le donne si sistemarono in sala d’aspetto e le guardie, nell’ora d’aria, dissero a uno dei quattro figli di avvicinarsi». Quando il ragazzo scorse da lontano la madre, prese a correre come un forsennato, si gettò ai suoi piedi e iniziò a piangere disperato. La mamma lo abbracciò forte come fosse tornato bambino e, piangendo anche lei, in dialetto pronunciò solo una frase: «Cosa è andato male figlio mio?» Per due anni, il giovane, sebbene interrogato ripetutamente con metodi estremamente violenti, aveva tenuto la bocca cucita. In quell’ora di colloquio, parlò ininterrottamente, fornendo alla polizia dati determinanti e restituendo a sé e alla mamma l’umanità perduta.
L’esperienza fu per Hauwa Ibrahim la definitiva conferma dell’incredibile potere delle mamme, nonne, sorelle, mogli, zie, nei conflitti o in situazioni di tensione, fondamentalismo e violenza estrema. Sulla scorta dei primi esperimenti condotti in Nigeria, l’avvocata fonda Mother’s Without Borders: Steering Youth Away from Violent Extremism e gira il mondo per costituire gruppi di donne e formarle alle azioni volte a recuperare giovani irretiti dal fondamentalismo e ristabilire così pace e riconciliazione. Dopo Jonathan e il principe giordano Hassan bin Talal – che le ha affidato un progetto di recupero di giovani attratti dalla rete estremista islamica residenti in un campo profughi alla periferia di Amman – è stata contattata dalle autorità di Yemen e Kenya per sviluppare percorsi di recupero mentre sta ricercando partners per fondare un Peace Institute in Italia che studi metodi alternativi alla violenza. «Le mamme sono la roccia costante a cui ogni figlio può aggrapparsi. Il nostro legame con loro dura per sempre. Li conosciamo nel profondo, dall’interno: sono il nostro mondo. La forza e l’energia delle donne sono risorse enormi. Il problema è che in pochi le sfruttano».