IL SENSO DOLOROSO DEL BLU

 

Claudio Magris

 

Quanti sono i colori? Il grande atlante dei colori — DuMont’s Farben-atlas di Harald Küpper — ne elenca centinaia e centinaia, tante sono le sfumature cromatiche diverse che l’occhio umano riesce a distinguere, costretto tuttavia a definire ognuna di esse con una tripletta di lettere e di numeri, perché non ci sono sufficienti parole per tutte queste sfumature di colori, che non esistono se non nel battito delle palpebre e nella retina che le distingue. I colori non ci sono, ma si vedono; tanti colori come le toppe del vestito di Arlecchino, ma che, a differenze di queste, si possono vedere ma non toccare.

La poesia chiede i nomi dei colori — «possiamo chiedere come si chiama il verde, come si chiama il blu», scrive Rilke. Nel suo Triumph der Farben Oswald Egger si scatena in un’inesauribile ghirlanda di nomi, metafore e immagini prese da ogni sapere e da ogni fare, dal lavoro del contadino a quello dell’intagliatore di pietre preziose a quello del tintore e ad altre innumerevoli attività della mente e delle mani. Nomi come ad esempio antilope azzurro fumo e così via, senza fine. Cromatismo dei tessitori, dei tipografi, degli ortolani, dei chimici e degli alchimisti, dei pittori — non c’è attività umana, fisica e mentale, che non abbia a che fare con i colori, con quelli che si vedono e si desiderano fuori e dentro di sé.

Nella mia disabilità digitale scrivo solo con la penna, penne che lasciano sulla carta bianca tratti e linee nere o blu, più raramente rosse, ma questo non giustifica l’insolenza, da parte mia, di parlare di colori, su cui non ho più competenza di quanto ne abbia sulle particelle della fisica o sugli algoritmi. Sono maestri e studiosi della retina come Alberto Maria Wirth, studiosi e storici dei colori quali il grande Manlio Brusatin — cito solo alcuni nomi fondamentali, tacendo ingiustamente di altri — che possono parlarci veramente di colori; artisti, scienziati, poeti, pittori, Baudelaire o Rimbaud, Beato Angelico, il blu di Picasso e il rosso di Velázquez o di Tiziano. Ma «che cos’è il colore?», si chiede Luisa Bertolini nel suo libro Il colore delle cose, sottolineando la difficoltà di dare un nome ai colori, di scoprirne la grammatica e di indicare il colore puro, assoluto, il blu o il rosso in sé, che nessuno ha mai visto. I colori non sono soltanto una seduzione della vita e della poesia, ma sono — prima ancora — un affascinante problema per la filosofia, che si è tante volte posta il problema della loro esistenza o non-esistenza, del loro rapporto reciproco e del loro significato. I filosofi aristotelici, Kant, Husserl, Wittgenstein. Quelle di Wittgenstein — che intitolava i suoi Quaderni Libro marrone o Libro blu — sono forse le considerazioni più radicali, più ardue sui colori: egli giunge a dire che «gli oggetti sono incolori», come se i colori non fossero una proprietà dell’oggetto bensì qualcosa che può essergli associato ma non stabilmente e non necessariamente allo stesso modo in momenti diversi. Il colore della cosa è la cosa? Qual è il colore di una foglia, il verde che mostra a mezzogiorno o il quasi nero che vediamo di notte? Il rosso ruggine su una foglia appassita e avvizzita, si chiede Wittgenstein, può essere considerato un verde degenerato, come una pelle grinzosa per la vecchiaia o violacea per la morte?

La passione per i colori è strettamente legata alla fenomenologia e al suo «ritorno alle cose» di cui parla Husserl. Ma le cose, gli oggetti hanno diverse qualità, in particolare — come hanno spiegato sin dall’antichità i filosofi della scuola atomistica e, con chiarezza ineguagliabile, Galileo — le qualità primarie (durezza, peso, grandezza e così via) e le qualità secondarie, ossia le qualità dell’apparenza, che hanno luogo dentro l’osservatore, nel suo sguardo che traduce frequenze d’onda in immagini e le trasmette al cervello, nel suo apparato uditivo che traduce per il cervello il fluttuare delle onde sonore nello spazio e le fa diventare, nel cervello, la Nona Sinfonia di Beethoven. Le cose che si toccano, scrive Galileo, sono, in questo o in quel luogo, in questo o in quel tempo, a prescindere dalla mano che le tocca o no, ma che le cose debbano essere bianche o rosse, amare o dolci, sonore o mute, di grato o ingrato odore, dipende dai sensi, dai nostri sensi e, continua Galileo, sapori, odori e colori non sono altro che puri nomi e tengono «residenza nel corpo sensitivo, sicché rimosso l’animale siano levate ed annichilite tutte queste qualità».

Molti studiosi hanno affrontato e analizzato, non solo nell’ambito della percezione dei colori, anche se con particolare intensità nei suoi confronti, questa dicotomia tra qualità primarie e secondarie. Con particolare genialità lo ha fatto Paolo Bozzi, originale e creativo studioso della percezione su cui ha scritto pagine fondamentali, e anche straordinario scrittore, ad esempio in quel capolavoro che è Fisica ingenua. Come spesso ingiustamente accade, la fama e il prestigio di Bozzi quale scienziato della psicologia e della percezione sono stati un ostacolo al riconoscimento della sua creatività e originalità di narratore. A me ha insegnato a vedere le cose, a non ingabbiarle a priori in prestabilite reti concettuali. Senza di lui non avrei scritto Danubio e non solo perché molti di quei vagabondaggi lungo il fiume li abbiamo fatti insieme.

Paolo Bozzi ha dato un particolare contributo all’interpretazione di una delle più grandi avventure poetiche, intellettuali e scientifiche dei colori, a quella Farbenlehre, teoria dei colori, che Goethe considerava il suo capolavoro e che non è il suo capolavoro, ma certo una geniale esperienza e narrazione del mondo e di come noi viviamo e sperimentiamo il mondo, cosa che non è meno reale del mondo stesso.

Il testo goethiano è una polemica sbagliata contro Newton e la sua spiegazione dei colori. Newton ha indubbiamente ragione; i colori — il blu, il rosso, tutti gli altri sono lunghezze e frequenze d’onda che arrivano alla nostra corteccia cerebrale, che le traduce nei colori che vediamo. Ma — obietta Goethe — noi non vediamo numeri che indicano frequenze d’onda; vediamo rossi papaveri, verdi foreste, tramonti viola e l’esperienza dei colori, dell’emozione e del significato che essi evocano per un individuo o una cultura è un’esperienza reale. Il blu dell’oceano, quello dell’oceano di Gauguin e quello di due occhi amati fanno parte del mondo. Una volta, all’università di Trieste, Paolo Bozzi ha ripetuto per me, nell’aula, gli esperimenti della teoria dei colori di Goethe, anche dando fuoco, come Goethe, ad alcune stoffe. Tinte che alla luce o nell’ombra diventano altre, stoffe incendiate il cui riflesso sul muro ha un colore diverso; da tutto questo è nato, ad esempio, un mio testo teatrale, Stadelmann, mirabilmente interpretato da Tino Schirinzi, in cui i colori — concreti, fisici — diventano quelli reali e simbolici della vita. Ho imparato a vedere non solo il colore delle cose, ma anche le cose, a sentire la loro realtà, perché l’azzurro-viola che ognuno di noi vede nel cielo della sera non è un delirio soggettivo ma una percezione — e dunque una realtà — oggettiva.

Ciò che muoveva Goethe all’accanita polemica contro Newton era il timore che la cultura e la scienza si volgessero a dimensioni e a linguaggi astratti, segni matematici al posto del variopinto tremare delle foglie nel vento, perdita di quella concretezza del vivere che è la vita che viviamo. Una tormentata vicenda amorosa può probabilmente essere espressa — risolta? — con un algoritmo, ma si può senza perdita sostanziale sostituire «la bocca mi baciò tutto tremante» con una formula matematica? In questo Goethe, nella sua sballata polemica, è stato buon profeta, come vediamo sempre più oggi, in cui abbiamo la sensazione di avere tutto e di più tranne la vita e forse pure tranne l’amore che — scriveva Charles Louis Philippe — è tutto quello che ci manca. Con le sole frequenze d’onda non si possono guardare i gigli dei campi, come invita Gesù.

Nella sua lettura della Teoria dei colori Paolo Bozzi fa un passo più in là. Egli afferma l’oggettività pure delle qualità terziarie, ossia dei sentimenti e dei valori che suscitano e destano, in noi, quel blu o quel rosso. Che il blu sia nostalgia, lontananza e desiderio struggente è una realtà oggettiva della mente e della sensibilità umana, del pattern che nei millenni ha formato e strutturato il cervello, la mente e il sentire dell’uomo; un’universalità della specie presente nell’infinita variabilità dei popoli, delle culture, delle lingue, anche quelle più lontane. Esperimenti, riferiti pure da Bozzi, mostrano che popoli reciprocamente lontanissimi, di lingue del tutto diverse, associano ad esempio la parola Takete a una figura irta e puntuta e la parola Maluma a una figura rotondeggiante.

La Teoria dei colori goethiana è affascinante per l’accanito lavoro sperimentale di osservazione da cui essa nasce, per lo studio attento e oggettivo delle combinazioni di colori, del loro influsso reciproco, di ciò che accade quando essi si accostano, si sovrappongono o si contrappongono.

Goethe dedica un cenno e qualcosa di più a un geniale e truffaldino gesuita del Seicento, secondo il quale il colore nasce non dalla luce ma dall’ombra, come si dice nell’Ars magna lucis et umbrae. Athanasius Kircher era e si professava — ora dicendo o correggendo la realtà, ora scoprendola ora inventandola e falsificandola — egittologo, esperto di geroglifici e di obelischi, autore di libri sulla peste e presunto inventore dell’analisi del sangue al microscopio, poliglotta in diciotto lingue tra le quali il siriaco-cinese, forse non inventore della lanterna magica ma abile nella sua strumentazione capace di simulare miracoli, progettista e preteso testimone di viaggi spaziali e nelle viscere della Terra; fautore di una scienza combinatoria universale, sul tipo di quella di Lullo, in cui ogni cosa è un segno. È improbabile che i colori nascano dall’ombra, anche se in quell’ombra di cui egli parla sembra di avvertire i colori che essa si è trascinata dietro quando la luce sulle cose andava spegnendosi o ritraendosi.

Autorizzato dal tema — i colori — procedo secondo le toppe del vestito di Arlecchino. Il blu — forse a causa del mare, ma non solo per questo — è il colore della mia vita. Tra tutti i colori, scrive William Gass, quest’ultimo ha, insieme al verde, il più intenso impatto emozionale. Il simbolismo del colore è un grande capitolo nella storia della cultura e talora varia da una cultura all’altra, come nelle frasi idiomatiche — in italiano, rileva Anna Maria Ferrari, si diventa verdi di rabbia, in tedesco blu. Forse nessun colore ha tanti e tanto contraddittori significati come il blu. Elencarli significherebbe compilare una vasta antologia della poesia e della letteratura universale, come emerge dal libro di Amelia Valtolina cui mi richiamo. Azzurro color di lontananza; montagne azzurrine «per la grossezza dell’aria», scrive Leonardo. La storia del blu, peraltro, è contraddittoria. Gli antichi greci e latini ne avevano, in pittura, una certa diffidenza; preferivano ad esempio i rossi, simbolo del poetare, o i gialli, simbolo della vita e della luce. Sarà il cristianesimo a privilegiare il blu, colore del manto della Vergine e della patria celeste o del cielo squarciato e violento del Guercino, gli azzurri luminosi di Chartres, quelli cupi e inquietanti di Paolo Uccello. Nella mistica alchemica il blu è il colore del passaggio dalla nigredo, dal nero della prigione della materia, all’albedo, al bianco della pura e limpida mente spirituale. I greci stessi indicavano talora con unico colore — kyaneos, ovvero ceruleo — la volta del cielo e l’abisso del mare. Di Alessandro Magno si racconta che avesse un occhio blu e uno nero — «nell’occhio nero lo sperar, più vano/ nell’occhio azzurro il desiar, più forte», così Pascoli. Anche in Rimbaud si trova questa interscambiabilità che è insieme contrapposizione tra blu e nero: «Infine, o felicità o ragione, io scartai del cielo l’azzurro che è un nero». I poeti, dirà Rimbaud, sono mendicanti d’azzurro.

Dall’abisso nero-blu viene l’ebbrezza, anch’essa ambigua perché può indicare farsi bestia o farsi Dio — in tedesco, ich bin blau vuol dire sono ubriaco. Il giacinto blu attira Persefone negli inferi; azzurro è anche il colore della decomposizione o della discesa negli inferi della psiche, mortale e insieme liberatoria; sublimità amata ma anche sfregiata da Baudelaire, i cieli allucinanti di Munch, forma e deformazione nel Picasso blu. Blue movies, nello slang americano, sono i film pornografici, che in italiano invece si chiamano «a luci rosse».

Ma il blu è soprattutto il colore delle infinite risonanze delle vetrate di Chartres; il colore della lontananza. dell’infinito, della nostalgia; della poesia stessa. Nello Heinrich von Ofterdingen di Novalis la blaue Blume, il fiore azzurro, è la cifra di una poesia totale e universale che pervade il mondo e unisce l’Io al mondo, il finito all’infinito. È la poesia stessa, pura e assoluta; cifra della romantizzazione del mondo che gli stessi romantici — Heine primo fra tutti — ironizzeranno e di cui faranno la parodia, anch’essa peraltro intrisa di nostalgia del blu e degli occhi blu, nostalgia che si difende da sé stessa nello scherno e nell’autoparodia. È soprattutto in età romantica che si studiano i colori, dal piano fisico a quello simbolico e metafisico; basta pensare a Philipp Otto Runge. Nel quadro Il naufragio della speranza di Kaspar David Friedrich i ghiacci azzurri sono l’assenza, la vacuità metafisica, scrive Amelia Valtolina. Ma L’oiseau bleu di Maeterlinck simboleggia il nesso tra l’azzurro e la poesia come la blaue Blume; nel tardo Ottocento l’eros si esprime in poesia con particolare intensità nel blu; il poema Azul di Ruben Darío inazzurra il modernismo ispano-americano e Blok in Russia affida ai versi «una veggenza azzurra». C’è l’ora blu cui Stefan George dedica una lirica, c’è la blaue Horthensie di Rilke debitrice di Cézanne. È il blu, esplicito o sottointeso, il colore del «puro trascendere» del primo sonetto a Orfeo. C’è, nella Nona Elegia di Rilke, la genziana gialla e blu che diventa «una parola conquistata». Rilke scrive sui quadri di Cézanne esposti al Salon d’autumn nel 1907; Hofmannsthal, nelle Lettere del rimpatriato, contrappone l’insignificanza della parola all’epifania dei colori di van Gogh.

Sono i pittori a dire i colori. Ad esempio Kandinskij scrive: «La profondità la troviamo nel blu… La vocazione del blu alla profondità è così forte che proprio nelle gradazioni più profonde diviene più intensa e intima». Grande poeta di questo azzurro spietato è Gottfried Benn; un «sacrilego azzurro», un «azzurro di sfinge su neve e mare», ich trete in die dunkelblaue Stunde, entro nella cupa ora blu. La parola blau viene posposta da Benn, violando volontariamente la regola della grammatica tedesca, al sostantivo, come nel famoso verso che inizia die Fjorde blau, che evoca tutto un Nord struggente solitario ed essenziale. Il bleu mourant diventa il colore di tutti i colori, l’essenza del colore stesso. «Il blu trascende la solenne geografia dei limiti umani», scrive Derek Jarman in Chroma e forse nessuno ha colto questo blu — colore dell’essenza e dell’assenza, di ciò che la vita dovrebbe essere e del nulla assoluto — come Paul Celan, poeta che è riuscito a strappare la parola anche al silenzio del mondo dopo Auschwitz; che ha saputo superare il divieto proclamato da Adorno, quando diceva che dopo Auschwitz è impossibile scrivere poesie. Celan ha dimostrato che invece è possibile, ma soltanto facendosi carico di questo radicale e assoluto divieto.

C’è il blu della musica. Le blue notes ricorrono nei blues, il canto popolare nero americano degli Stati Uniti, note che conferiscono una indefinitezza tonale, in quanto in un contesto armonico e maggiore si presentano, abbassate di un semitono, come se appartenessero al mondo minore. Note blu o note incerte, scaturite dall’incontro tra la scala pentatonica africana e quelle eptatonica europea. Immortale eco dei canti di lavoro degli schiavi, delle grida di richiamo dei campi di cotone e di un sentimento amoroso connesso a tutto ciò che è legato alla parola «blu», in tutte le sue accezioni nelle più varie lingue, un culmine di universalità poetica, fin da quella che è forse la prima opera uscita dall’anonimato del mondo nero, Memphis blues.

Nessuna musa può prescindere dal blu e lo dimostra con particolare evidenza il cinema. Il discorso sul blu nel cinema non finirebbe più. Paolo Magris racconta di come gli sia capitato, nella sua attività di regista cinematografico, di assistere al montaggio di un cortometraggio girato in digitale che gli ha fornito l’occasione di cogliere a fondo l’importanza e il ruolo del blu nel cinema. Il montatore di quel cortometraggio, nell’esaminare e trattare il materiale anche dal punto di vista di gestione del colore, teneva sullo schermo, come punto di riferimento, il celebre film Il sesto senso (1999). Con sorpresa dell’osservatore, i due filmati così accostati mostravano come le scene del film Il sesto senso, rispetto a quelle ancora grezze del cortometraggio, erano sì blu, ma non soltanto perché contenevano il blu, il che era ovvio, ma perché, in un significato più ampio, erano «un mondo blu», un mondo che contemporaneamente era blu nel suo complesso ma poi, all’interno, conteneva tutti i colori, compreso il blu. Questa sorta di «super blu», il blu come sfondo o come etere che attraversa l’immagine, inducevano l’osservatore a pensare che il blu più che un colore sia uno sfondo, in cui si muovono sensazioni ed emozioni. Forse, scrive Paolo Magris, perché il blu è il colore della sera ma anche del primo mattino, di quel segmento di «confine» dove tutto è «già e non ancora».

Nella color correction si usa spesso il blu sia per raffreddare in qualche modo l’atmosfera, dandole un tocco di patina trattenuta e non troppo calda, sia per rendere più morbida la visione, per creare una specie di superficie vellutata in cui l’occhio non sia assalito da tinte troppo forti. D’altra parte però «tale raffreddamento» non significa rendere algido il contenuto: nella tenue nebbia azzurrina di tanti film vibra una profondità sotterranea che attraversa l’anima piuttosto che squassarla; l’immagine azzurrina, togliendo immediata forza e pesantezza all’oggetto, produce una sintonia con le zone più indefinite e insieme più profonde delle emozioni.

Nelle Lezioni di tenebre Patrizia Runfola, grande studiosa di Praga e della sua cultura ma soprattutto espressione lei stessa di quella cultura di buio e di ombre, si avventura negli squarci di quelle tenebre; la sua penna estrae dal buio immagini e colori come quelli di Goya e Velázquez, nero lacerato dalla luce di Velázquez o filtrato dalla filigrana di Mucha. Tenebre, ombre non certo vaghe e indistinte, bensì precise, geometriche nel loro buio come la tessitura di un arazzo; ombre la cui natura e la cui struttura sono strisce o lampi di colore.

Il protagonista del generoso romanzo di Sara Fruner, L’istante largo, può comunicare con la nonna pittrice — segnata da una grave malattia che le ha tolto la parola — solo grazie a foglietti sui quali parole immerse come pennelli nei suoi colori fanno di quei colori non solo il mezzo della comunicazione affettuosa ma diventano la comunicazione stessa.

Forse i colori conoscono un unico verbo, trascolorare. Una frazione di secondo e quel verde del pioppo non è più lo stesso nel trascorrere della gioia leggera tra le sue fronde, nell’impercettibile calare e alzarsi del vento, nella minima frazione dell’incessante roteare della terra (Pascoli). Forse per questo la musica dice il colore più della parola. Il colore è musica perché dice e non dice; il suo valore e il suo significato non sono denotativi, non indicano un oggetto ma, anche quando appaiono indissolubili in quel momento da quell’oggetto — una rosa, una nuvola — non designano tanto quell’oggetto ma ciò che esso evoca, introducendosi nella mente e nel cuore di chi lo guarda. In una celebre poesia di Rimbaud le singole lettere hanno un colore. «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu/ vocali, lo dirò un giorno le vostre nascite latenti […] U, vibrazioni divine dei verdi mari…».

Carlos Mota, che si occupa di design e di decorazione, proclama Beige is not a color. Un grande e appartato poeta triestino, Virgilio Giotti, intitola Colori la sua più alta raccolta. Colori indefinibili la cui essenza è l’indefinibilità della vita. «Su le vele smaride/ ghe xe la luse ancora/ del sol che xe andà via». Eseguendo brani di Rameau e Debussy, il pianista islandese Vikingur Òlafsson sottolinea l’importanza fondamentale dell’alterazione cromatica del semitono in un testo musicale: «Il Do è bianco, il Mi è verde».

Il colore è musica perché dice e non dice; il suo valore e il suo significato non sono denotativi, non indicano un oggetto ma, anche quando appaiono indissolubili in quel momento da quell’oggetto — una rosa, una nuvola — non designano tanto quell’oggetto ma ciò che esso evoca, traducendosi nel cuore di chi guarda. È questo che lega il colore alla parola, quando essa non ha, in quel momento, un mero valore denotativo, la parola sedia che indica quella cosa a quattro gambe su cui ci si siede. Ma la parola, il significato — come scrive in uno splendido grande libro Gianluigi Beccaria, L’autonomia del significante — si traduce anch’essa, se parola poetica, in tanti e trascoloranti significati e sfumature, parole che diventano musica ed evocano e dicono tanti significati, anche molto diversi dalla definizione che di quella stessa parola dà il dizionario. Il significato deriva dal valore fonosimbolico. «Udivasi un fruscio/ sottile, assiduo, quasi di cipressi» (Ultimo viaggio, da Myricae).

Il colore dice sé stesso, dice un senso della vita che forse solo in quel momento, per quella persona, si esprime solo in quel colore. È come quando due sguardi s’incontrano in un attimo in un significato definitivo, in un incontro che può decidere l’essenziale della loro vita, delle loro vite, e si può dire soltanto, per un attimo senza tempo e per sempre, «è così». Scrive Pindaro, nell’ottava Ode Pitica: «Cosa siamo mai? Cosa non siamo mai? Sogno di un’ombra, un uomo. Ma quando un bagliore, dono divino, ci giunge, lucente fulgore sovrasta i mondi e dolce è la vita».

Si possono dire i colori, descriverli a chi non li vede? Nel suo racconto Nel museo di Reims Daniele Del Giudice narra di un uomo che sta perdendo la vista, ridotta a un’incerta opacità, e si fa dire e descrivere da una donna i quadri delle varie sale, le loro figure che gli arrivano confuse come un fogliame nell’acqua, i colori — blu, rosso, arancio — che percepisce come un grigio stinto e che si associano nella sua mente ad altri oggetti, il giallo con un girasole o un limone, le parole della donna accanto a lui ai ricordi di quando vedeva cose e colori, il turchese di cui lei parla ad altri turchesi ricordati o inventati nella sua mente, la luce che nella sua testa arriva da un’altra parte. Il quadro che egli si fa descrivere con particolare passione è il Marat assassinato di David — quel Marat protagonista del Terrore della Rivoluzione francese che ha fatto cadere sulla ghigliottina tante teste e che è stato pure un geniale studioso di ottica e della percezione dei colori. Marat, commenta Manlio Brusatin, scrive nel 1784 un libro sulle nozioni elementari di ottica che, prima di Goethe, continua e critica Newton affermando la centralità di tre colori — rosso, giallo, blu — anziché di sette, tre colori la cui complementarietà viene creata dal loro contrasto. Un’opera scientificamente avanzata a quel tempo in cui la scienza newtoniana — analizzata, celebrata, criticata in tante celebri opere, Algarotti o Rizzetti — si accompagna a una forte attenzione alle cose, alla natura, all’esperienza sensibile.

C’è un’affascinante continuità fra l’azzurro o blu indaco e il nero. Nel greco antico, scrive Maria Grazia Ciani nelle Porte del mito, mélas è nero, kelainos è un nero cupo, funebre; kuaneos è azzurro cupo che scivola nel nero, una sorta di nero-azzurro. Un grande studioso dei colori, Gérard-Georges Lemaire, ha scritto anche sul nero assoluto — la mistica del nero dei Padri della Chiesa come Gregorio di Nissa, la notte oscura dell’esperienza mistica di Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, la nera Praga sotterranea di tanta grande letteratura, la pittura di Rodtchenko che dipinge nero su fondo nero, come pittori americani quale Frank Stella e Hank Reinhardt, italiani quali Mariani e Podestà e altri. «Quel nero — dice Lemaire — è una frontiera che cercano di oltrepassare». Ma già il Ritratto virile di Frans Hals all’Hermitage è tutto giocato sulle sfumature del nero. Vedere nero significa non vedere? Mach, ripreso da Wirth, ricorda come in determinate condizioni sperimentali si possa vedere, in una stanza perfettamente buia, un flash nero — un «vedere più nero del nero» specie nel caso di inibizioni a livello retinico.

Ma non è il nero il colore più inquietante; il colore del negativo, della spettralità, dell’orrore. È il bianco, sul quale Melville, in Moby Dick, ha scritto le pagine più alte, più inquietanti, metafisicamente e fisicamente e psicologicamente insostenibili, su un colore. Orrore, follia e ambiguità assoluta è il bianco anche nel Gordon Pym di Poe o nei racconti e romanzi di Lovecraft.

I colori si dissolvono nella percezione del soggetto? In uno dei testi più radicali della Wiener Gruppe, uno dei grandi movimenti dell’avanguardia austriaca ed europea degli anni Sessanta, Oskar Wiener scrive: «Il mio colore preferito è il verde, il suo il viola; ci piace lo stesso colore perché se potessimo confrontare le nostre sensazioni, il mio verde sarebbe il suo viola. Ma per termine di confronto abbiamo solo la lingua, risultato di processi statici, buoni tutt’al più per la politica».

Il colore può divenire pure un personaggio. Nel romanzo Indigo di Gérard de Cortanze l’indaco è il vero protagonista, l’oggetto di un bramoso desiderio che porta alla distruzione e all’autodistruzione, all’assassinio. Una favola del male, in cui la ricerca ossessiva del blu assoluto, dell’indaco perfetto, conduce alla follia, al trionfo del demonico, trasformando il celestiale blu del Beato Angelico nel colore livido della morte, dei cadaveri, della putrefazione. Con ben altra forza letteraria, nel Maestro del Giudizio universale di Leo Perutz — geniale scrittore praghese di lingua tedesca — l’assassino è un colore, un rosso sconosciuto e insostenibile, frutto dell’allucinazione dovuta a una droga scoperta da un pittore maledetto del Rinascimento. Un rosso mai visto, terrificante immagine della fine di tutte le cose. Chi lo vede, nel delirio indotto dalla pozione segreta, muore.

Anche il verde, il colore forse più diffuso nel mondo in innumerevoli variazioni, può essere ristoro vitale e velenosa insidia — tenere fioriture e maligne alghe marcite — così come ha assunto vari significati anche politici, dai movimenti verdi in difesa dell’ambiente alle bandiere islamiche. Gli esempi sono senza fine, nelle opere più diverse. In Verde acqua di Marisa Madieri, scrive Lemaire, un colore, quel colore, diviene la musica lieve e continua del racconto. Il verde è forse il colore più materno, più accogliente. Nella Guarigione, l’ultimo racconto di Hoffmann — il geniale, demonico scrittore che ha scandagliato il sogno e l’incubo, l’ossessione del sosia e dello sdoppiamento della personalità, la disgregazione della follia — un vecchio afferrato dal delirio crede che la natura, adirata con gli uomini, abbia fatto sparire il colore verde, il colore della vita. Per guarirlo, lo addormentano e lo portano in un’incantevole natura verdeggiante in piena fioritura. Risvegliato in quella fresca pienezza, il vecchio si scioglie in un pianto liberatorio: «Ah mio verde, mio materno verde!». E lo invoca affinché lo accolga nelle sue braccia. Il verde della terra in cui anche Hoffmann, scrivendo la frammentaria parabola, si accingeva a ritornare. Le nostre contingenze, ha scritto Biagio Marin in una lettera al suo traduttore cinese che non mi stancherò mai di citare, colorano l’eternità di Dio.

 

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