Da quando comunque la riforma Biagi li ha inseriti in una rinnovata “cassetta di attrezzi”, i voucher hanno conosciuto solo un’affermazione rapida: dal mezzo milione del 2008 , sono decollati fino al quasi-raddoppio annuale fra 2014 e 2015 (115 milioni), prima che il referendum anti-Jobs Act trovasse in essi il terreno pretestuoso di uno scontro puramente politico. Stagionali agricoli e insegnanti ripetitori, babysitter e addetti al turismo o alla distribuzione commerciale: l’Azienda-Italia è sempre stata piena di Gig worker più o meno tradizionali, anche prima dei rider di Foodora.
I voucher – nell’Italia attanagliata dalla recessione e dalla disoccupazione giovanile – hanno mostrato di saper fare la loro parte. C’era qualche sintomo di abuso? Sarebbe stata sufficiente un’azione amministrativa più incisiva sul piano dell’ispezione; oppure – com’era stato suggerito da più parti – una “manutenzione” alla regulation. Invece è stato sacrificato un buon tentativo di tenere le mutazioni del lavoro e del suo mercato in un territorio di regole e riforme, ciò che che contraddistingue la civiltà economica europea.
Un dibattito aggiornato su lavoro e Gig economy appare quindi più che opportuno (sarà al centro anche di Mesharea, un format innovativo che la Fondazione per la Sussidiarietà ha deciso di promuovere nell’ambito del Meeting di Rimini 2018). È anzitutto un buon modo per obbligare forze politiche e sociali a interrogarsi qui e ora sulla reale agenda-Paese.
Il Jobs Act è stato assieme a Industria 4.0 l’eredità positiva dell’ultima legislatura: sarebbe un errore se quella appena iniziata – e il nuovo governo – la ignorassero e archiviassero.
Le politiche attive e il ruolo delle agenzie di servizi per il lavoro sono una strategia ancora in attesa di sviluppo, senza dimenticare i progetti già sperimentati da Regioni come la Lombardia. Gli incentivi alla digitalizzazione industriale hanno creato investimenti, Pil, competitività esterna per il made in Italy: ora devono vincere la sfida dell’occupazione, sul terreno della “formazione 4.0”.
È una prospettiva – quella offerta a ingegneri e periti industriali – che può sembrare lontana dai problemi quotidiani di Gig worker e Neet. In realtà tutti i giovani – disoccupati, poco occupati, occupabili – condividono una legittima esigenza-aspettativa: quella di poter imboccare percorsi “di regole”, in cui l’education diventa un volano per l’intera Azienda-Paese. Regole che nel ventunesimo secolo non possono più essere quelle uni-dimensionali di una legislazione o di una contrattazione nazionali. Sono “regole” che – sempre di più – attendono di essere prodotte da coloro che le devono poi utilizzare: le imprese, i lavoratori, le loro associazioni: i corpi intermedi al cui ruolo cui l’Azienda-Italia non può rinunciare. Per questo l’impegno per la riforma dei contratti, formalizzato da Confindustria e organizzazioni sindacali quattro giorni dopo il 4 marzo appare a tutt’oggi un esito più rilevante di quello dello stesso voto politico.
Il Sole 24 Ore – Giorgio Vittadini – 27/06/2018 pg. 20.