Il rovescio del muro. Il coronavirus, noi e molto da ricordare
Marco Tarquinio

Non è stato bello né comodo ritrovarsi nel tempo del coronavirus, anzi del «ceppo italiano del Covid-19». Ma è accaduto. E da qualche giorno noi italiani ci siamo resi conto che ogni muro ha il suo rovescio. Per davvero. E che per ritrovarsi dalla parte del rovescio basta un attimo – e un microscopico, inquietante e ancora indecifrabile inghippo.

Abbiamo cominciato a capire che la logica del muro, e dell’ognun per sé, è quanto di peggio si possa contrabbandare in un mondo in cui nessuno si ammala e si salva sovranamente da solo, dove nessuno nel proprio cantuccio – che si chiami Codogno o Vo’ o con qualche nome esotico – si può chiamare fuori e consolare. Perché è anche lì, anzi è proprio lì, su questa terra dell’uomo dove ogni periferia è ormai centro, che c’è il fuoco e magari s’accende un focolaio.

Perché nessuno può stare alla finestra mentre si articola la sfida dell’umana fragilità. E poco importa, pur in realtà importando moltissimo, che questa eterna sfida riesploda a causa di virus o di ideologie odiose, di guerre o di un’ingiusta economia, di terremoti devastanti o per il clima in artificialmente accelerato cambiamento. Per quanto ci si creda assolti, ha saputo cantare De André, siamo per sempre coinvolti. E sebbene, qui e adesso, si stia parlando di un male sconosciuto, il coinvolgimento – o, se volete, la connessione, la reciproca dipendenza – è un bene che possiamo finalmente aver chiaro e che dobbiamo tener caro sino a tradurlo in fraternità in atto, in solidale con-cittadinanza in Italia e oltre. Unica seria e buona alternativa al muro, alla sua logica di esclusione e al suo inevitabile rovescio.

Quel rovescio dove non è stato bello né comodo ritrovarsi, ma istruttivo e persino salutare. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno di salute, fisica e morale. Salute di mani e menti pulite, preservata o ritrovata non solo e non tanto a forza di disinfettante antivirale, ma di limpido disinfestante dei pensieri e dei gesti torbidi e ostili che ci hanno avvelenato la vita, sconvolto le consuetudini e persino leggi del vivere civile e stravolto la faccia ben prima del fiorire di posti di blocco lungo la pianura padana e di mascherine su troppi nasi e bocche. Finora, infatti, quelli da guardare con sospetto e da additare con fastidio erano sempre altri, palesemente diversi da noi. In genere scuri di pelle e poveri di tutto. Ora, lo stiamo scrivendo da giorni, scopriamo che “gli altri”, i diversi, siamo noi. Noi, fino a ieri quelli delle 186 nazioni aperte e persino spalancate davanti al nostro passaporto.

Noi, incredibilmente riprecipitati nella condizione di gente da fermare alle frontiere, da bloccare al limitare di porti e aeroporti, da evitare in patria e all’estero. Noi, additati come spalloni e taxisti del coronavirus. E, persino, come “appestati”, anche se veniamo da un Paese di quasi sessanta milioni di abitanti, sino a questo momento con oltre cinquantanove milioni e novecento e tanti mila non contagiati (e con più guariti che schiantati anche dal Covid-19), e ancora dotato – nonostante sciupii di persone e di quattrini – di uno dei migliori sistemi sanitari al mondo.

Ma le scoperte-rivelazioni non finiscono qui. Perché ogni rombo irresponsabile di titoli (di comizio e di giornale) si è dimostrato con plastica e drammatica potenza la colonna sonora anticipata di un crollo di titoli (di Borsa) e di credibilità per i titolati di un irriflessivo potere politico o mediatico. Perché lungo questa Penisola, bella come sempre e disertata come poche altre volte nella sua storia, stiamo censendo una costellazione di luoghi comuni capovolti, a cominciare da quello di un cruciale pezzo del Nord che attrae, lavora e produce ridotto a una ferita aperta che da Sud si guarda con stupefatto timore. E perché più d’uno ha meglio capito il nostro ripetuto allarme: quando si fa “guerra alla solidarietà”, a pagare – in modi anche imprevedibili – sono sempre gli innocenti e i deboli di turno. Scriviamolo sul rovescio del muro. E ricordiamocelo.

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