Un giovane giornalista al suo primo incarico importante (dirigerà il supplemento estivo del suo giornale, «La pagina dell’Adriatico») che vuole a tutti i costi risolvere l’enigma di un insolito suicidio; un musicista che compone un’opera rock nei ritagli di tempo consentitegli dalla sua occupazione stagionale di orchestrale in un night-club un po’ equivoco; una cronista mondana che segue lo svolgersi litigioso e drammatico di un intrigato Premio Letterario Internazionale; una signora tedesca che cala a Rimini per cercare le tracce della giovane sorella scomparsa e che si trova, giorno dopo giorno, sempre più oppressa dall’orgia estiva e infernale del popolo della vacanza; uno scrittore appena uscito da una fortissima crisi personale e letteraria che nel partecipare al Premio Riviera Internazionale reincontra, in modo tragico, il proprio angelo distruttore al quale definitivamente capitolerà; un gruppo di travestiti gioiosi che percorre in lungo e in largo il panorama godereccio notturno delle centinaia di dancing e discoteche che affollano la riviera; un gruppo di vecchie signore dell’avanspettacolo e dello striptease che allietano in tournée le decine e decine di case per ferie per pensionati; e poi la fauna dei gigolos che popola i locali e i caffè e le spiagge, orde di ragazzi violenti e selvaggi che si scontrano la notte sui lungomari deserti, strambi e romantici nottambuli come Fredo, apprendisti stregoni che predicono un’imminente fine del mondo, stelle della canzonetta degli anni sessanta in rentrèe sulle scene tra vecchie rivalità e odi, mogli in vacanza di un’Italia provinciale e piccolo borghese che sta tirando i remi in barca e che ritrovano le avventure e i flirts della prima giovinezza, concorsi per pornodive del fumetto, match sportivi, radio libere e su tutto questo intrecciarsi di storie il panorama gremito e ossessivo della riviera adriatica, sfolgorante e metaforico can-can di una Italia che chiude i battenti tra conformismi, corruzione, scandali, brame di successo e insensatezze collettive; che chiude malinconicamente i battenti come il parco dei divertimenti “Italia in miniatura” li chiude sul finire della stagione a Rimini e nelle ultime pagine del romanzo.

Pier Vittorio Tondelli a Riccione; photo Fulvia Farassino

Rimini è dunque il racconto fatto a più voci e a differenti livelli narrativi di una stagione sulla riviera di Romagna negli anni ottanta. La trama principale è quella del giovane giornalista milanese che scende in riviera per lavoro. A lui è affidato il compito narrativo di smistare e far defluire le trame secondarie: la storia della cronista mondana, quella dello scrittore, quella della tedesca in cerca della sorella. A loro volta le tre sottotrame vengono interrotte o arricchite da altre storie e altri ambienti a volte solamente evocati altre invece dettagliatamente narrati… Questo gioco dell’entrare e uscire dalle trame con altri punti di vista narrativi è quello che io chiamo “visione polifonica del romanzo” ed è quella che vorrei realizzare con questo romanzo. Stilisticamente poi il linguaggio del romanzo è formato nei toni e nei modi della letteratura violenta, patetica, sentimentale che mi sta più a cuore. Ci saranno pagine patetiche, altre “rosa”; ci saranno un paio di episodi di violenza piuttosto dettagliati (la scorribanda dei ragazzi skin; la morte dello scrittore) ma ci sarà anche una visione di speranza, di concretezza, il senso che è possibile, pur fra gli intrighi e gli scandali, lavorare e combinare qualcosa di buono (è la soluzione ottimistica affidata alla storia di due ragazzi che vanno a Rimini per girare un film e che nonostante i guai riusciranno ad avere un contratto). Non mancheranno le scene gioiosamente comiche e divertenti, insomma vorrei fare un romanzo in cui gli stili si incrociano così come i sentimenti; vorrei fare un romanzo – e lo sto facendo – che mi assomigli: che sia tenero e disperato, violento e dolce, divertito e assorto, struggente e mistico. È l’unica autobiografia che qui mi permetto. Chiudo con un paio di note, la prima che scrissi quando pensai a questo lavoro; e l’ultima in ordine di tempo. Note che fanno parte del lavoro teorico di tutti questi anni a proposito del romanzo: “Conseguenza di uno shock-Baldwin vivissimo: il plot deve essere forte, una storia funziona se ha l’intreccio ben congegnato…Ho bisogno di far trame, di raccontare, di scandire i rapporti tra i personaggi. Il fumettone mi va benissimo, più le storie e lo stile sono emotivi meglio è. Inizierei con un ambiente (gli ambienti, i paesaggi dell’oggi, ecco che cosa manca in Italia nei libri) cioè RIMINI, molto chiasso, molte luci, molti cafè chantant, molti gigolos e marchettari…”.

Pier Vittorio Tondelli

Rimini. Il primo capitolo

Il profilo notturno di Milano entrava dai larghi vetri con gli indistinti bagliori della metropoli: i fumi, i chiarori, le insegne pubblicitarie, le luci rosse e arancioni e azzurre. Mi fissai su quelle luci. Sentii crescermi dentro un’inquietudine nuova e strana. Versai un goccio di whisky. Sentii freddo sotto i piedi. Il mio sguardo, come nel pomeriggio, vagò attorno a quelle luci, le accolse fino a trasformarle interiormente. Fu tutto chiaro. Per anni avevo inseguito quelle luci desiderando più di ogni altra cosa di essere io un faro, un punto luminoso nella notte. E invece ancora, a ventisette anni, dovevo accontentarmi di ammirarle da lontano, dall’altra parte, attraverso i cristalli di una finestra. Non brillavo da solo. E solo questo invece da anni e anni io desideravo, solo per questo, come tutti i giovani avevo dato il via alla mia carriera abbandonando inutili studi, università e gettandomi nel lavoro. E ora, forse, l’occasione giusta si stava presentando nella mia vita. Non potevo più continuare a guardare quelle luci come in uno specchio. Volevo di più, molto di più per la mia vita, volevo essere là. Volevo il successo e volevo la lotta. Volevo infrangere quei cristalli e gettarmi dall’altra parte, fra quei bagliori e bruciare. Sentivo che era l’occasione giusta.

Avvertii il rumore delle chiavi che giravano nella serratura della porta d’ingresso. «Che fai lì al buio?» chiese Katy entrando. La salutai con un grugnito. «Mi sono addormentato… Che ore sono?» «Le due». Attraversò la sala e accese le luci della camera da letto. «Già le due? E perché non hai telefonato?» «Lo sai Marco, il lavoro». La sentii spogliarsi: il fruscio della gonna che scendeva, le scarpe che volavano per la stanza. Raccolsi l’asciugamano e lo attorcigliai attorno ai fianchi. Barcollai verso la cucina. «Sei sbronzo?» chiese Katy sporgendosi dalla camera. Non le risposi. Sentii poco dopo lo scroscio della doccia e così preparai un melone e qualche fetta di prosciutto solo per me. Katy mi raggiunse avvolta nel suo accappatoio bianco. Si sedette sullo sgabello di acciaio al mio fianco. «Che ti è successo, oggi?» Esitai a rispondere. Alla fine scelsi di tacere. E fu una scelta giusta perché lei attaccò immediatamente una brutta storia. «Devi avere pazienza, caro», disse sottovoce. «Ancora un mese. L’undici luglio ci sono le sfilate a Firenze e dopo prenderemo finalmente una vacanza. Avrei pensato a qualcosa per settembre. E tu?» «Non ho progetti… Vuoi un po’?» «Ho parlato con Ellen stamane. Chiede se per agosto andiamo da lei. Non ti sembra una buona idea? Poi a settembre partiremo». «Da Ellen?» «A Pantelleria». «Il mare mi sembra una buona idea». «Sono felice di sentirtelo dire».

Si avvicinò con la testa e strusciò i capelli dietro il mio collo. Sapeva come farmi eccitare. Questo mi piaceva di lei. Che a trentasette anni (o forse più) dormendo poche ore al giorno, strillando per ore con le sue sartine e le sue modiste di fiducia, impartendo ordini ai disegnatori, ai grafici, agli stilisti, tornando a casa nel cuore della notte, era sempre pronta a farlo. Come quella sera. Appoggiò le labbra alla mia schiena e prese a mordicchiarmi. Finii il bicchiere di birra. Mi voltai. «C’è una cosa che dovrei dirti». «Non ora Marco, non ora». Mi fissò con gli occhi stretti per la stanchezza e il desiderio. «Non parliamone adesso». «Come vuoi», dissi, abbracciandola, «ma ricordati, dopo, che in questo momento avrei voluto dirtelo». «C’è un’altra donna?» Le sue labbra continuavano a strusciarsi contro il mio collo, il petto, le spalle. «No, non è questo». La vidi abbassarsi. «Allora non c’è niente che tu possa dirmi di tanto importante. Assolutamente niente». La sollevai da terra. Le feci scivolare l’accappatoio. La baciai in bocca, a lungo. «Mi spiace, sai, per questo week-end… Ma il lavoro… Il lavoro…» furono, quella sera, le sue ultime parole. Mi aprii la strada con le dita, poi entrai deciso. Katy mi serrò tra le braccia. Mi dissi: anche tu non fai più per me. Come il vecchio bar, come la vecchia stanza di redazione. Siete tutti arredi del mio passato. Io vi sto lasciando e quel che è peggio è che non ho rimorsi. Vi lascio come si lascia una lunga, noiosa convalescenza. Per vivere.

Fu una lunga masturbazione nel corpo caldo di Katy. Ecco, non fu nient’altro per me che una lunga, ritmica, accelerata sega dentro di lei. Ma, come spesso accade in questi casi, lei non se ne accorse. Facemmo l’amore e quando tutto fu finito, sul letto, prima di spegnere la luce, mi accarezzò. Era il suo grazie per avere ancora una volta ricreato la magica intesa dei primi tempi. Non sapeva che le stavo dicendo addio. Ed essendo io ancora troppo giovane, ingenuamente ero portato a rendere assoluto quello che mi stava accadendo. Credevo ancora che un addio fosse un saluto definitivo, un addio per sempre. Stavo bruciandomi le navi alle spalle, come solitamente si dice. Era vero. Io non avevo più, da quel momento, nessuno che mi legasse al mio passato. Ero un uomo nuovo, nudo, solo che partiva per conquistare il mondo. Ma forse si trattava solamente della conquista di se stessi, di un sé ancora una volta impulsivamente confuso dentro il proprio sogno.

Nei giorni seguenti mi diedi da fare per preparare la mia partenza. Mi sorbii un sacco di riunioni in redazione per decidere l’assetto complessivo della Pagina dell’Adriatico; mi accordai con i grafici per la veste tipografica, scelsi un carattere diverso per l’impaginazione delle rubriche giornaliere in modo da separarle dal resto delle notizie e dai servizi. Scesi nell’archivio a rileggermi le passate edizioni, feci centinaia di fotocopie, riportai sul mio taccuino i titoli dei servizi che mi erano parsi più interessanti e che anche in questa edizione avrei voluto riprendere. Sfogliai, lessi, copiai, annotai. Fu un buon lavoro. Di quelli che io preferivo: breve e intenso.

Vidi Katy, in quei giorni, solamente la notte. O, per meglio dire, avvertii la sua calda e morbida presenza accanto a me nel letto. Parlammo di sciocchezze, le chiesi del lavoro, e lei del mio. Eravamo molto cortesi in quello che in definitiva nient’altro era che un abbandono. Naturalmente non le comunicai le mie intenzioni. Soltanto, il giorno prima, la avvertii del fatto che sarei andato a Rimini per lavoro. «Starai via molto?» chiese. «Un po’… Dipenderà dal giornale». Katy sbadigliò. «Capisco». Pensai fosse finita lì. Invece, quando ormai ero addormentato, sentii la sua voce roca che diceva: «Credo che tu mi stia lasciando». Mi voltai verso di lei. Era appoggiata allo schienale del letto e si massaggiava delicatamente la fronte. Piuttosto, se la tormentava. «Ma che dici?» dissi senza convinzione. La sentii sorridere. «Ho dieci anni più di te e cento storie in più. Non credere che mi dispiaccia. Va così. Perché stare a farci dei problemi?» «Non ti sto lasciando», mentii. «Devo solo partire. È diverso». Non disse niente. Il silenzio era imbarazzante. Non riuscii nemmeno a sfiorarla. Era veramente separata da me, come non lo era mai stata. Nemmeno prima di conoscermi, nemmeno quando eravamo due perfetti estranei che vivevano ai lati opposti della città. Cera una forza sotterranea e sconosciuta che ci avrebbe fatti incontrare. Ora invece, quella stessa forza, ci spingeva lontani. «Non stai soffrendo, vero, Katy?» ebbi la forza di aggiungere. «No. Non sto soffrendo», disse lentamente. «In fondo eri pur sempre qualcuno che mi faceva fare l’amore, che mi baciava. Eri pur sempre il mio uomo. Eri “qualcuno”». «Vuoi che facciamo l’amore?» Detto così era chiaro che non lo avremmo mai fatto. Era solamente una maniera efficace per difendermi. Mi sembrò che sorridesse. «Sono molto stanca, sai il lavoro… Le sfilate…».

Pier Vittorio Tondelli

*I documenti sono tratti da: Pier Vittorio Tondelli, Rimini. Il romanzo vent’anni dopo, a cura di Fulvio Panzeri, Guaraldi, 2005

*In copertina: una fotografia di Marco Pesaresi, Rimini, 1996