Il rischio adesso è la pandemia della mente

Non è solo un evento epocale, che segna un prima e un poi nella storia. È anche uno shock collettivo che investe i nostri corpi. Non ne seguiamo solo le vicende sullo schermo; ne subiamo gli effetti ogni giorno. Il biovirus assassino, invisibile e incomprensibile, che toglie il respiro e provoca una morte orribile, intacca anche la vita quotidiana in mille modi.

Al panico iniziale, esorcizzato sui balconi, è subentrato un senso di mestizia, di stupefatta e amara rassegnazione. Decreto dopo decreto tutto è andato rallentando, fino a fermarsi. Non è mai accaduto: un’intera nazione agli arresti domiciliari. E sarebbe anche la maggioranza dei “privilegiati” rispetto a tutti coloro che sono costretti a lavorare in queste circostanze drammatiche: medici, infermieri, lavoratori di supermercati, rider, autisti, autotrasportatori, ecc.

Mentre si comincia ad affrontare il tema della recessione economia, ormai alle porte, si continuano a discutere gli aspetti più politici di questa crisi, cioè la gravità dello stato d’emergenza, la pericolosità delle «misure» adottate. Si toglie margine di movimento promettendo, anzi, garantendo l’immunizzazione al cittadino-paziente che, più o meno di buon grado, accetta perciò tutte le regole igienico-sanitarie. Così funziona quest’inedita forma di democrazia immunitaria.

Ma per quanto tempo? E con quali effetti? C’è un’altra emergenza di cui finora non si è quasi parlato ed è l’emergenza psichica. Quasi fosse un tabù, un argomento da rimuovere, è rimasta ai margini del dibattito pubblico. A proposito dei test diagnostici, e più in generale della cura, già diversi esperti, virologi, medici e tecnici ministeriali hanno ammesso le falle della sanità sul territorio, lasciato quasi esclusivamente nelle mani dei medici di base. E si sa a quale prezzo. Il problema, però, non è solo il corpo.

Il rischio degli arresti domiciliari di massa, un’esperienza mai vissuta prima, è una enorme implosione psichica che verrà a squarciare il silenzio spettrale di questi giorni. La vita di molti è cambiata dall’oggi al domani. Il nulla sembra inghiottirla. Il lavoro, le attività di sempre, quella routine frenetica – tutto è improvvisamente sospeso. Sono paralizzate le relazioni umane.

Amici, parenti, conoscenti non sono che voci lontane, volti filtrati da schermi. Certo, meno male che disponiamo di questi mezzi tecnici, senza i quali l’isolamento sarebbe ancora più gravoso e insopportabile.

Bisogna riconoscere che gli effetti letali del coronavirus non sono purtroppo solo le morti, ma anche l’imposizione della distanza con tutto quello che porta con sé: tristezza, rabbia, senso di impotenza, frustrazione, solitudine, insonnia, angoscia, depressione. L’epidemia è psichica. E ha proporzioni imponderabili.

Non è detto che a soffrire le conseguenze della segregazione siano solo i sofferenti psichici. Le situazioni possono essere disparate. C’è la famiglia numerosa costretta in uno spazio ristretto e il single prigioniero del suo monocamera; lo studente che rimpiange l’aula universitaria e l’anziano definitivamente separato dal mondo. Non tutti hanno i mezzi per affrontare l’angustia dello spazio, per elaborare l’angoscia.

E non deve stupire in un paese che ha investito così poco nella cultura, che ha disabituato i cittadini alla lettura. Insieme al cibo bisognerebbe portare un libro. E magari riaprire le librerie.

Sebbene il sistema sanitario nazionale sia letteralmente sopraffatto, dovrà tuttavia guardare agli effetti della distanza relazionale, prima che la violenza mieta le sue vittime, a cominciare dalle donne e dai più deboli. Consulenti psichiatri? Iniziative culturali, che siano però di massa?

Questo paese ha la grande tradizione basagliana nella psichiatria a cui è venuto il momento di attingere.

Si resta immuni, se si accetta di essere segregati. Questa è l’epidemia psichica del coronavirus. Uno shock virale che potrebbe essere devastante se non è affrontato nel segno della solidarietà. Per i neosegregati sarà forse questa la chance per riflettere sulla condizione dei detenuti nelle carceri.

 

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