I nomi che vengono gettati in questi giorni nel tritacarne della corsa al Colle non sono neppure ballon d’essai ma pura chiacchiera e gioco di società. La partita del Quirinale deve ancora cominciare ma non perché, come ripetono i leader «ci mancano ancora tre mesi», che in politica sono un soffio. Perché nessuno può impostare una strategia finché, in un modo o nell’altro, non si sgombra il campo dall’incognita Draghi.
DI NOMI VERI in ballo ce ne sono in effetti due soli. Il primo è Sergio Mattarella. Se facesse un segno d’assenso i giochi sarebbero chiusi e nei palazzi gira da un po’ la voce che il capo dello Stato abbia aperto uno spiraglio alla rielezione. Non è così e per il momento il «non se ne parla» del presidente resta fermissimo. In politica non si può mai dire mai, ma di certo non sarà Mattarella a risolvere in partenza i guai di un sistema politico impazzito e avvitato su se stesso. Comunque, se anche fosse tentato dal sacrificio, non lo farebbe senza un semaforo verde del centrodestra che per ora proprio non c’è.
Tutt’altro discorso per quanto riguarda Draghi. Nessuno sa davvero se pensi al Colle ma quasi tutti sono convinti di sì ed è probabile che abbiano ragione. Di sicuro ci pensa e lo spinge tutto il suo cerchio, sia tecnico che politico. Quanto l’ipotesi sia considerata realistica e, al di là delle dichiarazioni di facciata, anche temibile lo dimostra il fuoco di sbarramento che si è levato da un po’ di giorni. Ieri Giorgia Meloni ha ripetuto che, in caso di elezione di Draghi, bisognerebbe tornare a votare e ha aggiunto che Salvini è d’accordo. Come strumento di deterrenza non ce n’è di altrettanto potenti: alla sola parola «elezioni» i franchi tiratori, in parlamento, diventerebbero un esercito regolare, compatto e ordinato nella fucilazione. Salvini peraltro non smentisce e glissa da giorni, autorizzando così il robusto dubbio che preferisca non giocare la carta sulla quale punta l’amico/nemico Giorgetti. Forza Italia in compenso parla, caso ormai più unico che raro-, con una voce sola: «Draghi resti dov’è».
LO DICE ANCHE CONTE, ed è significativo che abbia iniziato a dirlo dopo la festicciola con Bettini. Ma se anche sostenesse il contrario la rassicurazione sarebbe relativa. Fatte salve le eccezioni alla Di Maio, il grosso del M5S, come anche LeU, non apprezza Draghi e non ha perdonato la defenestrazione di Conte. Su quei voti segreti peserebbe comunque un enorme punto interrogativo. Persino Renzi ha fatto capire, pur senza esporsi troppo, che vorrebbe sì Draghi presidente, ma della Commissione europea. Il Pd la pensa a,llo stesso modo: molto meglio che il presidentissimo rimanga a palazzo Chigi. Letta però è consapevole di non potersi opporre qualora la sfinge Draghi decidesse o anche solo lasciasse chiaramente intendere di mirare davvero al Colle.
Come se il fuoco di sbarramento e i segnali lanciati ormai ogni giorno non bastassero, fioriscono dubbi sulla legittimità costituzionale di un’eventuale elezione di Draghi. L’art. 82 della Carta dice che il capo dello Stato non può ricoprire altre cariche istituzionali. Finché si tratta della presidenza del Senato o della Camera bastano dimissioni immediate ma un premier non può dimettersi sui due piedi. Deve restare in carica per l’ordinaria amministrazione. Per essere eletto Draghi dovrebbe, secondo questo diffuso ragionamento, dimettersi in anticipo.
FORSE È PER QUESTO che negli ultimi giorni si sono moltiplicate le voci secondo cui a palazzo Chigi si considererebbe vicino alla conclusione il mandato del governo, essendo conclusa la vaccinazione e impostato il Pnrr. Impossibile dire quanto di sostanzioso e quanto di messo in giro ad arte ci sia in queste voci. Di certo la fine del governo, sia per un improbabile colpo di testa di Salvini alla Conferenza dell’11 dicembre sia per una scelta del premier, eliminerebbe ogni ostacolo posto dalla politica. Ma se i partiti sono deboli la realtà è forte e non aiuta la marcia di Draghi. La pandemia non è sconfitta. Il Pnrr ancora non decolla. Gli ostacoli per Draghi non sono solo invenzioni di una politica che preferisce evitare un presidente troppo ingombrante. Sono reali e poco sormontabili ma la debolezza stessa della politica, la sua incapacità di trovare l’accodo su un presidente non di parte, potrebbe rendere inevitabile superarli ed eleggere Draghi costi quel che costi.