Il punto
In Lombardia e nel Lazio Liberi e uguali è alle prese con il primo vero ostacolo della sua breve esistenza. Un ostacolo ricco di insidie. pagina 30 In Lombardia e nel Lazio Liberi e uguali è alle prese con il primo vero ostacolo della sua breve esistenza.
Un ostacolo ricco di insidie perché la prospettiva è di scontentare qualcuno, anzi molti, quale che sia la scelta. Sostenere Zingaretti a Roma e Gori a Milano? O uno solo dei due o magari nessuno? L’appello all’unità di Prodi e Veltroni ha il suo peso, provenendo dai due nomi più autorevoli del centrosinistra legato al Pd. Tuttavia, si obietta, chi ha fatto una scissione per sfuggire a Renzi e al suo sistema di potere non ha voglia di tornare all’ovile in cambio di nulla.
Contro obiezione: Liberi e uguali commetterebbe un errore fatale ad arroccarsi in modo settario. Un conto è l’avversione al “renzismo”, tutt’altra cosa è compromettere oggi con un passo falso il futuro del centrosinistra, quando si tratterà comunque di sedersi intorno un tavolo e discutere, specie se il risultato del 4 marzo dovesse imporre una riflessione a tutto l’arcipelago della sinistra.
Risolvere il rebus non è facile. La coincidenza fra il voto nelle due grandi regioni e le elezioni politiche crea un groviglio in cui è arduo stabilire la scala delle convenienze. Anche perché occorre poi spiegarsi all’elettorato in modo chiaro, senza troppe cortine fumogene e senza apparire dei banali cacciatori di poltrone. La soluzione più astuta è quella salomonica: “sì” all’alleanza nel Lazio, dove è candidato un non-renziano come Zingaretti con la cui giunta la sinistra già governa; “no” in Lombardia, dove il candidato Gori per il suo profilo professionale e l’amicizia con Renzi è lontano dall’immagine che Mdp-articoloUno vuole proiettare di sé.
Ma sarà un “no” tormentato che arriverà solo al termine di un sentiero fatto di aperture (vedi Bersani), colloqui, confronto sui programmi. In altre parole, tutto il rituale politico di chi non vuole farsi trovare con il cerino in mano e ha bisogno di qualche convincente ragione da esporre in pubblico per giustificare il rifiuto. Del resto, Gori è una scelta renziana, non è passato attraverso il bagno purificatore delle primarie, non rappresenta nemmeno sul piano retorico la cosiddetta sinistra/sinistra. E tuttavia l’appoggio a Gori potrebbe risultare determinante – qualcuno lo crede, anche se i sondaggi sono più scettici – per sottrarre la Regione alla destra e restituirla dopo anni al centrosinistra.
Se Bersani e gli altri sono stati costretti a lasciare il Pd a causa di Renzi e solo per questo motivo, forse conviene loro riannodare qualche filo proprio in vista di un possibile dopo-Renzi.
Il fatto è che il “sì” all’alleanza in Lombardia, sovrapponendosi alle elezioni generali, condizionerebbe tutta la campagna elettorale, facendo perdere credibilità a Mdp come scelta alternativa al “renzismo”. Quindi il paradosso vuole che per essere del tutto convincenti nel loro antagonismo i seguaci di Grasso e Bersani devono mettere nel conto di favorire la vittoria leghista a Milano e il successo del centrodestra in numerosi seggi assegnati con il sistema maggioritario.
Il bivio è questo. Un “sì” all’intesa su Zingaretti e Gori sarebbe un segnale di pacificazione (il “seme dell’unità” lo ha definito Franco Monaco), sarebbe visto con favore anche da Susanna Camusso, capo di una Cgil molto importante per gli scissionisti, ma creerebbe l’ennesima frattura a sinistra. Il “no”, anche solo in Lombardia, attirerebbe molti fulmini sui riottosi bersaniani, ma non spaccherebbe il partito. Certo, dividerebbe gli elettori.
Un ostacolo ricco di insidie perché la prospettiva è di scontentare qualcuno, anzi molti, quale che sia la scelta. Sostenere Zingaretti a Roma e Gori a Milano? O uno solo dei due o magari nessuno? L’appello all’unità di Prodi e Veltroni ha il suo peso, provenendo dai due nomi più autorevoli del centrosinistra legato al Pd. Tuttavia, si obietta, chi ha fatto una scissione per sfuggire a Renzi e al suo sistema di potere non ha voglia di tornare all’ovile in cambio di nulla.
Contro obiezione: Liberi e uguali commetterebbe un errore fatale ad arroccarsi in modo settario. Un conto è l’avversione al “renzismo”, tutt’altra cosa è compromettere oggi con un passo falso il futuro del centrosinistra, quando si tratterà comunque di sedersi intorno un tavolo e discutere, specie se il risultato del 4 marzo dovesse imporre una riflessione a tutto l’arcipelago della sinistra.
Risolvere il rebus non è facile. La coincidenza fra il voto nelle due grandi regioni e le elezioni politiche crea un groviglio in cui è arduo stabilire la scala delle convenienze. Anche perché occorre poi spiegarsi all’elettorato in modo chiaro, senza troppe cortine fumogene e senza apparire dei banali cacciatori di poltrone. La soluzione più astuta è quella salomonica: “sì” all’alleanza nel Lazio, dove è candidato un non-renziano come Zingaretti con la cui giunta la sinistra già governa; “no” in Lombardia, dove il candidato Gori per il suo profilo professionale e l’amicizia con Renzi è lontano dall’immagine che Mdp-articoloUno vuole proiettare di sé.
Ma sarà un “no” tormentato che arriverà solo al termine di un sentiero fatto di aperture (vedi Bersani), colloqui, confronto sui programmi. In altre parole, tutto il rituale politico di chi non vuole farsi trovare con il cerino in mano e ha bisogno di qualche convincente ragione da esporre in pubblico per giustificare il rifiuto. Del resto, Gori è una scelta renziana, non è passato attraverso il bagno purificatore delle primarie, non rappresenta nemmeno sul piano retorico la cosiddetta sinistra/sinistra. E tuttavia l’appoggio a Gori potrebbe risultare determinante – qualcuno lo crede, anche se i sondaggi sono più scettici – per sottrarre la Regione alla destra e restituirla dopo anni al centrosinistra.
Se Bersani e gli altri sono stati costretti a lasciare il Pd a causa di Renzi e solo per questo motivo, forse conviene loro riannodare qualche filo proprio in vista di un possibile dopo-Renzi.
Il fatto è che il “sì” all’alleanza in Lombardia, sovrapponendosi alle elezioni generali, condizionerebbe tutta la campagna elettorale, facendo perdere credibilità a Mdp come scelta alternativa al “renzismo”. Quindi il paradosso vuole che per essere del tutto convincenti nel loro antagonismo i seguaci di Grasso e Bersani devono mettere nel conto di favorire la vittoria leghista a Milano e il successo del centrodestra in numerosi seggi assegnati con il sistema maggioritario.
Il bivio è questo. Un “sì” all’intesa su Zingaretti e Gori sarebbe un segnale di pacificazione (il “seme dell’unità” lo ha definito Franco Monaco), sarebbe visto con favore anche da Susanna Camusso, capo di una Cgil molto importante per gli scissionisti, ma creerebbe l’ennesima frattura a sinistra. Il “no”, anche solo in Lombardia, attirerebbe molti fulmini sui riottosi bersaniani, ma non spaccherebbe il partito. Certo, dividerebbe gli elettori.
La Repubblica – Stefano Folli – 12/01/2018 pg. 1 ed. Nazionale.