Il Paese fantastico che Pasolini voleva salvare dalla modernità.

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di Paolo Lepri

Lo Yemen muore, e a qualcuno è stato risparmiato, per una oscura consolazione del destino, di assistere a questa terribile agonia. Se Pier Paolo Pasolini fosse ancora vivo, infatti, verserebbe sicuramente lacrime di disperazione, a pugni chiusi, vedendo uno dei luoghi del mondo da lui più amati distrutto dalla follia delle molte guerre civili che lo stanno attraversando. Anche qui — come in Iraq, come in Siria, come in Afghanistan — la pietà non lascia traccia di una sua possibile, remota sopravvivenza.
Sana’a, la stupenda città in cui i palazzi salgono dal fango al cielo, gli ricordava Venezia, forse perché come Venezia ha sempre avuto la tendenza a scomparire. Forse perché prima di arrivare «in questa Venezia selvaggia sulla polvere» per girare alcune scene del Decameron e poi del Fiore delle Mille e una Notte si era perso anche lui, «come un cane senza padrone», tra le case alte, strette e sbilenche del Ghetto. Non era ancora il tempo della violenza. La capitale dello Yemen, dove Pasolini era già stato in precedenza con Alberto Moravia e Dacia Maraini, era attaccata a quell’epoca da due malattie diverse che ne promuovevano vicendevolmente la rovina. Due malattie che conosceva bene: la povertà che uccide e la modernità che corrompe.
«Si tratterà forse di una deformazione professionale, ma i problemi di Sana’a li sentivo come problemi miei», annotava l’autore delle Ceneri di Gramsci nell’ottobre 1970. «La deturpazione che come una lebbra la sta invadendo — proseguiva — mi feriva come un dolore, una rabbia, un senso di impotenza e nel tempo stesso un febbrile desiderio di fare qualcosa…». Nacque così l’idea di un appello all’Unesco «perché aiuti lo Yemen a salvarsi dalla sua distruzione e ad avere coscienza della sua identità».
Non furono parole inutili. Qualche anno dopo l’Unesco lanciò una campagna internazionale per la conservazione di Sana’a e l’Italia intervenne realizzando un progetto per il restauro di un’area pilota. Sembra passato un secolo. Pochi giorni fa, in quella stessa città una volta profumata di spezie, quattro attentatori suicidi hanno ucciso oltre un centinaio di persone che affollavano due moschee legate al movimento sciita degli Houthi. «Faremo scorrere fiumi di sangue in piena» è stato il proclama dei terroristi sunniti legati all’Isis. Adesso sono gli Houthi a prevalere, imponendo la loro legge e cercando di impadronirsi delle istituzioni. La pericolosa ombra dell’Iran si estende. Il controllo di ampie aree è invece nelle mani di Al Qaeda.
«In tutto lo Yemen — scriveva ancora lo scrittore e regista friulano — non c’è una palma, ma si sente una fantasticità più profonda, che viene da quella sua mirabile architettura in verticale, di case alte e povere, l’una a fianco dell’altra nelle anguste stradine. Lo Yemen è il Paese più bello del mondo». L’appello di Pasolini arrivava «in nome della grazia dei secoli oscuri e della scandalosa forza rivoluzionaria del passato». Sì, il passato, uno dei molti nemici della guerriglia jihadista. «Il fondamentalismo — ha scritto nei giorni scorsi il premio Nobel per la Letteratura V.S. Naipaul — nega il valore e perfino l’esistenza delle civilizzazioni che hanno preceduto la rivelazione del Corano».
In un mondo arabo in fiamme — dove perfino la Tunisi del risveglio democratico ha dovuto fare recentemente i conti con la barbarie — lo Yemen è ormai uno Stato fantasma. Negato ai visitatori, fonte di continuo pericolo per i pochi cooperanti rimasti. Restano ormai solo le suggestioni. Resistono i ricordi, le città sono diventate parole. Come la Aden di Paul Nizan, lo scrittore francese che proprio viaggiando in quei luoghi quando aveva solo ventisei anni scoprì se stesso e le ragioni della sua rivolta contro «le classi dominanti». Adesso è la stessa Storia che si deve invece ribellare, per dirla con Naipaul, contro le forze che pretendono di abolirla.