Oswald Spengler pubblicò Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia universale nel 1918; nel 1922 apparve l’edizione definitiva, in due volumi. Nonostante l’enorme mole e lo stile non brillante (ma molto assertivo), l’opera godette subito di un’immensa fortuna di pubblico — fu il libro d’apertura del XX secolo — mentre una parte del mondo accademico inorridì davanti al dilettantismo ascientifico dell’autore, alle sue velleità di «tuttologo» in grado di unire in una sintesi, nel «simbolo», gli aspetti più disparati delle diverse civiltà «superiori», proponendo connessioni avventurose che si vogliono profonde e spesso sono superficiali, e davanti alla sua pretesa di saper maneggiare con perentoria disinvoltura il sapere universale, di avere individuato le chiavi della storia mondiale passata, presente e futura.
Benedetto Croce recensì il Tramonto con sgomento, accusando l’autore di ignoranza e faciloneria, e leggendo in quel miscuglio di irrazionalismo, di relativismo, di nazionalismo e di profetismo, la decadenza morale e scientifica della cultura tedesca. E all’irrazionalismo Spengler fu ascritto da un marxista come György Lukács nel suo libro-denuncia La distruzione della ragione (1954) — mentre un filosofo analitico come Otto Neurath lo aveva accusato di iper-razionalismo, ma anche di pseudo-razionalismo (Anti-Spengler, 1921). A ciò si aggiunga il favore con cui Mussolini accolse, facendoli tradurre, alcuni scritti successivi di Spengler — il quale però non ebbe rapporti cordiali con il nazismo, di cui rifiutava l’antisemitismo e che riteneva volgare e fasullo, essendone a sua volta accusato di «pessimismo» (del resto, è suo il motto «l’ottimismo è viltà»).
Ce n’era abbastanza per fare di Spengler — morto nel 1936 — un autore «di destra», per ghettizzarlo in un ambito ideologico in cui si apprezzavano le sue tesi sulla natura razziale delle civiltà, e le intuizioni sul tramonto della «civiltà» moderna, e sul cesarismo autoritario a forte impronta tecnica (cioè anti-umanistica) della «civilizzazione» contemporanea. Questa interpretazione fu assecondata dalla prima traduzione del Tramonto, che si ebbe in Italia nel 1957, presso Longanesi, opera di un personaggio altamente controverso come Julius Evola.
La traduzione di Evola rispecchia il suo autore — tradurre è trasportare, ma soprattutto è interpretare, ricreare, rimettere al mondo —: andamento stilistico pesante (lo è anche l’originale), linguaggio un po’ arcaico, soluzioni a volte intelligenti, ma molto orientate da una forte ideologia tradizionalista che rileggeva il lato razziale dell’organicismo di Spengler (che nell’originale c’è, ineluttabilmente) alla luce di un’idea di sapere trascendente ed eterno, che è dell’italiano e non del tedesco. Una traduzione autorevole, quindi, ma molto influenzata dall’esoterismo aristocratico evoliano, che ascriveva del tutto Spengler alla «cultura della crisi», alla «critica del tempo», alla polemica antidemocratica e ambiguamente ostile alla tecnica (disprezzata nel suo utilitarismo, ma ammirata come strumento di potenza), tipica del pensiero di destra. Una traduzione che di fatto metteva d’accordo dispregiatori e apologeti, nel valorizzare di Spengler organicismo, pessimismo e irrazionalismo.
Né le cose cambiarono molto quando apparve nel 1978 una revisione della traduzione di Evola (poi ripresa, presso Guanda, da Stefano Zecchi) a opera di un’équipe afferente a Furio Jesi. L’operazione fu poco più che cosmetica, e si limitò a eliminare alcune bizzarrie stilistiche e alcune arbitrarie intrusioni del termine «razza», inserito anche dove era assente nell’originale.
La crucialità, la creatività, la vitalità del tradurre, emergono con piena evidenza in occasione di una delle più importanti imprese editoriali di questi anni, in ambito filosofico-politico: la nuova versione integrale del Tramonto — che prescinde del tutto da quella di Evola — a opera di Giuseppe Raciti, professore a Catania, che l’ha pubblicata presso l’editore Aragno di Torino, coraggioso e benemerito, in due splendidi volumi — il primo nel 2017, e il secondo nel dicembre 2019.
Si tratta di un restauro radicale del testo di Spengler, che ci viene restituito con una nitidezza e una vivacità inconsuete. Il linguaggio è, anche se un po’ ricercato, più fresco e aggiornato rispetto a quello di Evola (che dista più di sessant’anni); errori fattuali e sviste non intenzionali sono stati corretti; ma soprattutto è cambiato lo stile, il sapore della traduzione, proprio a causa del diverso interesse teorico, del mutato angolo visuale del traduttore. Ora, la parola di Spengler suona più viva, più interessante anche se non necessariamente più persuasiva. La nuova traduzione, insomma, rende attuale l’inattualità programmatica di Spengler, che non viene più decifrata dal punto di vista della Tradizione, ma di una bruciante contemporaneità. Ora, Spengler parla a noi.
Le sue coppie esplicative — civiltà e civilizzazione, organico e storico, organismo e organizzazione —, la stessa nozione di «tramonto», possono ora essere riviste. Certo, per Spengler la vita delle civiltà, gli organismi che hanno un’anima naturale e vitale, è razzialmente determinata (il traduttore mette però in rilievo il grande ruolo storico dello spazio, del paesaggio, rispetto al sangue, delle migrazioni rispetto al radicamento). Ma il cuore del libro non sta nella «metafisica selvaggia» (parole di Heidegger) dell’organico: non nella biologia vegetale delle culture, ma nel destino interno delle civiltà, nella costruzione artificiale, non più originale, delle civilizzazioni. Spengler ci dice che l’Occidente non è il punto d’arrivo dell’umanità (e così rovescia la tesi di Hegel); che l’origine, lo sviluppo, il declino delle civiltà complesse, delle culture, non è calcolabile, anche se si può ricavare, dallo studio delle civiltà, una sequenza di forme e figure, una morfologia, che consente la comprensione del loro destino; e soprattutto ci dice che fra le civiltà superiori quella europea «faustiana» sta morendo in un tramonto di lunga durata, e che proprio la morte di questa civiltà, non la sua vita, consente quell’esercizio di auto-comprensione che è la storiografia.
Questa, però, non è come la filosofia di Hegel, come la «nottola di Atena» che alza il suo volo sul far della sera e riesce a comprendere, se non a ringiovanire, il mondo; la storiografia in Spengler è solo il linguaggio particolare dell’Occidente, la «bolla» in cui è immersa una civiltà morente. Non salva, e non comprende il corso del mondo — che non c’è —: semmai, se lo inventa come propria auto-giustificazione. Una grande relativizzazione dell’Occidente, quindi, che coesiste con la consapevolezza che la storia di questa civilizzazione è insuperabile, dal suo interno, che cioè l’Occidente non riesce a uscire da sé stesso, che si pensa eterno, privo di storia e di futuro, che si dilata solo nello spazio, dove può perfino diventare minoritario dopo avere reso il mondo a propria immagine.
Il Tramonto così non è il compianto su un declino, ma l’apertura grandiosa sulle questioni del nostro tempo: la democrazia di massa, il denaro, il regno della tecnica, il destino di diffusione e appropriazione planetaria — la globalizzazione — della civilizzazione occidentale. Passata la sua creatività, la civiltà faustiana si impadronisce dello spazio mondiale. E qui scatta l’analogia fra il presente e Roma antica: Spengler, tutt’altro che pessimista, affidava alla Germania il ruolo di interprete del destino occidentale; ma è stato smentito dagli eventi. Eppure gli Stati Uniti, cioè l’impero uscito vittorioso dai grandi conflitti del XX secolo — che dovevano decidere chi sarebbe stato il signore delle masse, della tecnica, del denaro e dell’organizzazione —, si pensano come eredi di Roma, e paventano un’analoga decadenza.
Le pagine restaurate di Spengler sono così non un rimpianto, ma un’analisi disincantata, benché enfatica, delle vicende che generano la democrazia e del cesarismo imperialistico (il populismo iper- sovranista e iper-politico) che sorge dalla sua impotenza, con le sue leadership e la sua volontà di dominio. E la globalizzazione rivela di essere una fine che non ha fine, uno spazio-tempo prefigurato, dentro il quale può succedere di tutto.
Ecco allora che grazie alla nuova traduzione Spengler diventa il portatore non solo di una velleità conoscitiva dai tratti nostalgici e al contempo totalitari, ma di uno sguardo critico sul nostro mondo. E non è un caso che già Adorno — che pure centrava la sua lettura meno sulla civilizzazione e più sulla naturalità delle culture, cioè sulla barbarie che alligna nelle civiltà, accettata da Spengler come destino — vedesse in lui uno di quei teorici della reazione la cui critica del liberalismo (oggi diremmo dell’autocomprensione mainstream della globalizzazione) si è rivelata superiore a quella progressista.