Mentre si avvicinano le celebrazioni per i 700 anni dalla morte del poeta (1321), fioriscono i testi divulgativi. Ma un conto sono quelli scritti su basi scientifiche, un conto quelli che mescolano i dati sicuri (pochi) con bizzarre elucubrazioni. Come nella «vita in esilio» narrata da Chiara Mercuri. Bisognerebbe introdurre una nuova fattispecie nei tribunali: il danneggiamento dell’autore della «Commedia»
Che aria tira nell’ambito della critica dantesca, mentre si avvicinano le celebrazioni per i 700 anni dalla morte del poeta (1321)? Di certo da parecchio tempo scarseggiano i saggi che riescono a proporre un’interpretazione d’insieme, come nel caso di Erich Auerbach o di Charles S. Singleton, o almeno quadri storicizzanti ma ben collegati alla letteratura contemporanea, come succedeva con la famosa linea espressionista Dante-Gadda di Gianfranco Contini, ora peraltro contestata da molti. Abbondano gli studi filologici ed eruditi, spesso volti a ipotizzare contatti (fragilini) con testi poco noti o con sistemi filosofici diversi da quello aristotelico-tomista; oppure quelli che azzardano interpretazioni sottilissime pur di trovare nuove spiegazioni di luoghi dibattuti, o magari per confermare attribuzioni di opere dubbie, che siano il Fiore o la Questio de aqua et terra. Le discussioni fervono, ma ben di rado si arriva a conclusioni condivise: e cercheremo di capire meglio perché. Viceversa, abbondano i testi divulgativi, dove le interminabili diatribe dei dantisti vengono accantonate o ignorate, per presentare un quadro adatto al lettore comune, privo di parecchie sfumature ma almeno godibile.
Un conto però sono le biografie scientifiche, scritte da specialisti e magari un po’ romanzate, tuttavia in modo esplicito e comunque con opportuni rinvii bibliografici: possono presentare assunti azzardati, ma lo fanno capire, come nel caso di quella curata da Marco Santagata (Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, 2012). Un conto invece è se la biografia, priva di riferimenti, finisce per essere un vero romanzo, con tanto di scene dove si mescolano continuamente i dati sicuri (e sono un numero irrisorio nel caso di Dante) con le elucubrazioni più bizzarre, senza che il lettore non specialista capisca mai quale sia il livello di attendibilità del discorso. Di questo secondo tipo un esempio perfetto è costituito da Dante. Una vita in esilio di Chiara Mercuri, da poco uscito per Laterza.
L’autrice è nota soprattutto per i suoi lavori su San Francesco e sulla storia religiosa medievale, ma non vanta alcuna particolare benemerenza come dantista. Ciononostante, basandosi su un’edizione delle Opere di Dante, sulla Cronica di Dino Compagni e su non si sa bene cos’altro (non è citato nemmeno uno studio in tutto il libro), comincia col riferirci esattamente cosa faceva e pensava Dante a Roma il 4 novembre 1301 mentre sperava di essere ricevuto da Papa Bonifacio VIII: il quale invece lo tratteneva per evitare che, tornando precipitosamente a Firenze, sventasse il complotto che i Guelfi Neri, con Carlo di Valois, stavano ordendo per prendere il potere e cacciare i Bianchi. Una simile ricostruzione poteva forse essere gradita ai lettori dei romanzi d’appendice nell’Ottocento, ma adesso sembra rappresentare in un teatrino di marionette questioni intricate e delicate, con Corso Donati, il grande capo dei Neri, che odia Vieri de’ Cerchi, alla guida dei Bianchi; questi ultimi che vogliono solo far soldi; gli avversari che rivogliono il prestigio feudale e via discorrendo.
Decenni di ricostruzioni storiche e documentarie, culminate nel rinnovato Codice diplomatico dantesco (Salerno, 2016), non sono serviti a niente. Nemmeno a evitare gravi imprecisioni e veri errori sin dalle prime pagine. Mercuri, tanto per dire, sostiene che Guido Cavalcanti avrebbe colpito Corso Donati nel 1299 o giù di lì quando tutti gli storici collocano, con cautela, quell’episodio nel 1296. Per infiorettare la descrizione del soggiorno romano del 1301 (su cui pure ci sono parecchie incertezze) s’inventa che in quell’occasione, osservando Castel Sant’Angelo, il poeta avrebbe trovato spunto per una celebre e precisa similitudine del canto XVIII dell’Inferno: peccato che essa si riferisca al Giubileo del 1300. I problemi della biografia e delle varie stesure delle opere vengono trattati con grande superficialità, fornendo date che a volte non corrispondono affatto a quanto oggi pensa la critica più accreditata, per esempio riguardo al Convivio, al De vulgari eloquentia, al soggiorno in Casentino, alla stesura del «poema sacro».
Un capitolo a parte dovrebbe riguardare lo stile, infarcito di immagini antiquatissime, con Vieri de’ Cerchi che «fa le spallucce» quando sente le minacce del Papa, o Dante che è «costretto a cambiare tana», quando non può più soggiornare in Lucchesia, e poi «respira il profumo di Firenze da lontano», quando si trasferisce a Poppi. «Ma come scrivi?» commenterebbe Nanni Moretti…
Non sempre però le colpe sono solo dalla parte dei divulgatori. Anche fra i critici ufficiali non mancano pressapochismi e fantasticherie, magari per riuscire a proporre una novità. È celebre, per esempio, un saggio di Corrado Bologna uscito nell’Atlante della letteratura italiana Einaudi (2011) e dedicato a una delle ultime opere dantesche, le Egloghe in latino, scritte a Ravenna tra il 1319 e il 1321, in dialogo con il poeta Giovanni Del Virgilio. In una decina di pagine, tra errori materiali (date sbagliate, opere confuse, persino lezioni inventate come un Inferni regna al posto di infera regna, con tanto di traduzione perché non si pensi a una svista), e interpretazioni totalmente lontane dal testo, con un completo travisamento dei rapporti fra i due poeti, si può dire che non ci sia un periodo privo di grossolane mistificazioni. Del resto, il critico in questione è lo stesso che si è inventato sozzi connubi tra pontefici nel caso di Inferno XIX.
Ma pure per conservare un’opera persino i filologi più seri perdono la testa. S’inventano significati implausibili per giustificare le evidenti contraddizioni della controversa Epistola a Cangrande: lì offero canticam Paradisi in molti pretendono che voglia dire «prometto di mandarti» e non «ti offro adesso» il Paradiso ultimato perché, se così fosse, il testo sarebbe incompatibile con i dati biografici sicuri. La correttezza scientifica vorrebbe poi che un’ipotesi in campo venga valutata e semmai confutata, mentre spesso si preferisce ignorarla: l’importante è poter dire presto la propria verità per farsi notare.
Si arriva così al recente scoop di una nuova epistola attribuita dal filologo Paolo Pellegrini a Dante, scritta per conto di Cangrande della Scala: le basi per l’attribuzione si riducono a due o tre minimi riscontri stilistici, che già a un primo esame risultano generici e del tutto insufficienti per avere una sicurezza. Mai e poi mai, in passato, si sarebbe osato proporre un contributo del genere. Chissà, forse si dovrebbe introdurre il reato di «danteggiamento» ossia «danneggiamento di Dante»?