di Davide Ferrario
Comincia con una storiella di convivenza domestica. La mia compagna è un’appassionata di Masterchef; di solito, però, si addormenta prima della fine della puntata. Così capita che la riveda il giorno dopo: ma non da dove si è interrotta, la rivede dall’inizio. Un giorno mi accorgo che è almeno la quarta volta che guarda il medesimo episodio. Le chiedo: «Ma non ti annoi?». Lei, soave, mi risponde che non si ricorda mai cosa ha visto la volta prima. Le sembra sempre nuova. Un giorno lo racconto a un amico e ammette candidamente che capita anche a lui. «Okay, può succedere…», penso. In fondo, la tv non è molto più che un elettrodomestico. Non lascia traccia di sé, è effimera per natura: altrimenti come faresti a digerirne gli orrori quotidiani senza suicidarti o almeno finire dallo psichiatra, come in quel film di Woody Allen?
Però poi succede un altro fatto. Giro un nuovo film e comincio a montarlo. In questa fase capita spesso che inviti amici o gente di passaggio a vederne il work in progress. Le domande che pongo sono di due tipi. Uno riguarda il gradimento generale del film. L’altro, la comprensibilità oggettiva della storia. Per esempio, nel caso in questione, scopro che molti non riconoscono un’attrice perché in una scena ha i capelli sciolti e nell’altra sono raccolti in uno chignon. Ma il problema è un altro. È che comincio a ricevere una serie di osservazioni di cui non riesco a capire la ragione. Variano da spettatore a spettatore e riguardano situazioni diverse. La cosa più strana è che se a vedere il film sono più persone insieme, ciascuna rileva un problema laddove le altre hanno interpretato la scena in modo corretto. Insomma: posso capire la faccenda dell’acconciatura dell’attrice, ma il resto non sembra avere senso. A un certo punto uno mi parla di un personaggio descrivendolo come «il manager», mentre nella storia è un giornalista. Gli faccio rivedere le scene in questione: non c’è verso di pensare che quello sia un manager. Lui non sa dirmi perché gli è venuta quell’idea.
Ora, vedere un film al cinema in una sala buia è un’esperienza diversa che consumarlo come capita oggi, facendo mille altre cose, fermandolo, velocizzandolo, lasciandolo lì da un giorno all’altro o guardandolo mentre si parla al telefono. Ma io sto parlando di visioni «controllate», con il sottoscritto presente a osservare che gli spettatori facciano quello e solo quello. È qualcosa che non mi era mai capitato. Non posso non chiedermi che cosa stia succedendo.
È sotto gli occhi di tutti la trasformazione della visione negli ultimi quindici anni. E non si tratta solo di cinema. Non c’è campo della vita e del lavoro, ormai, in cui la nostra attenzione si focalizzi in modo esclusivo su un solo oggetto. A cominciare dalla sbirciata compulsiva allo smartphone, siamo dentro un vortice di sollecitazioni percettive che difficilmente hanno un centro. Lo chiamano multitasking ed è un’evoluzione tecno-biologica dell’umanità.
Oggi siamo in grado di fare molte cose contemporaneamente. Mi chiedo però se significa anche farle sufficientemente bene. Ammetto che tutto ciò che sto scrivendo è conseguenza di privatissime osservazioni e riflessioni: ma mi sembra di trovare continui riscontri empirici. Il ragionamento è semplice: data 100 la nostra capacità di elaborare le informazioni, se ne riceviamo una sola siamo certi di elaborarla al massimo; ma se ne seguiamo dieci contemporaneamente, dedicheremo a ciascuna un decimo dell’attenzione di cui necessita. E in effetti la superficialità argomentativa, il deficit di attenzione, la disfunzionalità linguistica sono fenomeni chiaramente in atto nella società, documentati da statistiche e lamentati dagli studiosi.
Ma il problema è ancora più inquietante. Mentre è plausibile attendersi che tutto questo avvenga in situazioni «multisensoriali», come spiegare che il deficit di attenzione si verifica anche in contesti controllati come quelli che ho descritto? La risposta è inquietante: la nostra mente sta perdendo l’elasticità necessaria a riconvertire l’attenzione da molti oggetti a uno solo. Immaginate la nostra percezione come un grande split screen in cinemascope diviso in tante parti costantemente in funzione. Se le spegni tutte meno una, non è che l’attenzione va a focalizzarsi solo sullo schermo che è rimasto acceso: resta «aperta» anche al nulla che proviene dagli altri, diminuendo la capacità di concentrarsi. Stai pensando comunque ad altro e il giornalista diventa un manager per qualche connessione fortuita.
A questo proposito mi viene in mente una conversazione con Umberto Eco, nella quale il semiologo lamentava la scomparsa della memoria nei suoi studenti. «Se non leggono dagli appunti che hanno preso, alla fine di una lezione sono raramente in grado di dirmi quello che gli ho spiegato». È come se l’attenzione «orizzontale», legata all’infinito presente in cui viviamo, avesse come prezzo da pagare la perdita dell’attenzione “verticale”, quella capace di articolare le informazioni nel flusso del tempo.
C’è un’ironia del destino in questo fenomeno. È la nemesi decretata dagli Dei nei confronti del linguaggio cinematografico del Novecento. Il montaggio — fin dai tempi delle teorie eisensteiniane — è nei fatti la capacità di eliminare segmenti di informazione realistica per produrre un flusso di credibilità più intenso, tipico del cinema.
Pensate solo a come viene manipolato il senso del tempo in un film. Un processo che si basa sul direzionamento dell’attenzione dello spettatore solo su ciò che è strettamente necessario alla storia. Ma oggi questo linguaggio artistico sta implodendo sotto la spinta di modificazioni biofisiche indotte dalla tecnologia. La mente dello spettatore rifiuta di legarsi a una sola fonte di attenzione: pensate al fiorire dei cellulari nelle platee di cinema e teatri. Luoghi dove una volta, in caso di mancanza di interesse, al massimo ti addormentavi.
A proposito di cellulari: da qualche mese la Zeiss pubblicizza una nuova linea di lenti. Così recita lo spot della campagna: «L’era delle tecnologie digitali mette a dura prova i nostri occhi, che passano in continuazione dagli schermi alla realtà anche mentre siamo in movimento». È nato così un nuovo tipo di lente per occhiali che cerca di risolvere i problemi legati alla focalizzazione di un oggetto digitale. Alla fine dell’Ottocento, quando è cominciata l’epoca delle immagini in movimento, è iniziato un processo lento ma lineare: gli schermi si sono fatti sempre più piccoli. L’era d’oro del cinema è coincisa con la diffusione del cinemascope e del 70mm: schermi enormi che potevano essere visti contemporaneamente da duemila persone in una sala. Poi è arrivata la televisione, quindi i computer. Infine i tablet, gli smartphone e — last but not least — gli iWatch.
Tutto questo ha due conseguenze.
La prima è strettamente fisiologica: abbiamo perso progressivamente la capacità di avere uno sguardo «largo». Lo schermo sempre più piccolo chiude la prospettiva focale su qualcosa di ridotto e vicino, disallenando la mente a cogliere il senso generale di quello che vediamo, a favore del dettaglio.
La seconda ha implicazioni di antropologia culturale. Molto spesso, ormai, tra noi e le cose c’è uno schermo, e spesso questo schermo riquadra la stessa realtà che vediamo con gli occhi, caricandola di una sorta di «senso aumentato». È il meccanismo che sta alla base dell’uso maniacale dello smartphone in eventi pubblici o in situazioni quotidiane: filmare il mondo e sé stessi nel mondo come prova della propria esistenza.
A mia memoria, il primo esempio di massa di questo fenomeno furono i funerali di Papa Wojtyla il 2 aprile 2005. Ricordo i fedeli in lutto in piazza per tre giorni e poi, quando il corteo funebre attraversò la folla silenziosa, l’inattesa e improvvisa comparsa di centinaia di telecamerine che immortalavano la salma. La devozione si coniugò all’improvviso con la tecnologia: ognuno fu in grado di prodursi il suo santino privato.
Negli anni successivi la possibilità di fare riprese (gratis!) con gli smartphone ha moltiplicato la cosa all’ennesima potenza, modificando la fisiologia stessa della visione. Pensate a come la funzione scroll costringa gli occhi a un tipo di sforzo mai presentatosi prima nella storia dell’umanità: inseguire parole e immagini che si muovono velocissime in verticale.
Peraltro, guardare lo schermo di un cellulare richiede l’opposto delle abilità associate alla ripresa cinematografica. Da sempre i cameramen professionali hanno guardato dentro un mirino, con un occhio chiuso e spesso sotto un telo nero. Per fare un’immagine bisognava isolarla dal resto. Ma a metà degli anni Ottanta arrivarono le Handycam, ricordate? Il display per la ripresa venne separato dall’obiettivo. All’improvviso si poteva controllare contemporaneamente l’inquadratura e quello che le succedeva intorno. Ma così cadeva anche la separazione tra le due dimensioni: quello che sta al di qua e quello che sta al di là dell’obbiettivo. Trentacinque anni dopo gli schermi dei telefonini sono diventati contemporaneamente display, mirino, obiettivo e schermo: queste superfici retroilluminate stanno dentro la realtà — e certe volte la sostituiscono.
Come ha scritto Vanni Codeluppi su «la Lettura» del 14 marzo scorso (#485), «sì è fortemente indebolito il potere posseduto dal nostro sguardo: il potere di comprendere il mondo per riuscire a modificarlo. (…) Oggi, invece, per poterlo esercitare siamo necessariamente costretti a ricorrere a uno schermo e alle immagini che circolano al suo interno».
C’è un’ultima osservazione che forse ci aiuta a capire: sta dentro l’etimologia della parola «schermo». Che nella modernità ha assunto il significato di «superficie su cui si proietta un’immagine», ma la cui radice antica ha piuttosto a che fare con il concetto di difesa. Uno schermo è prima di tutto qualcosa dietro cui ci si ripara, fisicamente e figurativamente.
Ecco così che gli schermi che portiamo nel palmo della mano ci rivelano la loro funzione più nascosta. Non sono solo lo strumento per intervenire nella realtà (virtuale o meno), sono anche gli scudi dietro i quali ci proteggiamo da essa.
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