Il nazismo in casa Così Tobias ha imparato l’odio

L’ATTENTATORE DI HANAU
di Paolo Berizzi
HANAU — Se la costruzione dell’odio è un mosaico da comporre, per cercare i tasselli mancanti devi immergerti nel quartiere del suprematista della porta accanto. Il quartiere dove è nato e cresciuto Tobias Rathjen. La zona più multietnica di Hanau. Il terreno in condivisione: lui e loro. Il lupo uscito improvvisamente dalla tana e le prede che nulla sapevano, i turchi, i curdi, gli indiani, gli afgani, i bengalesi, i rom, i bosniaci. «Abito a 50 metri da casa sua. Lo incontravo qui davanti, al supermercato Lidl. Faceva la spesa e non guardava in faccia nessuno ». Abaned (nome arabo) è colombiana. Suo figlio Jack, nato dal matrimonio con un turco, è il proprietario — insieme al padre — dell’Arena bar & Cafe. La prima tappa della strage (poi il raid al Midnight). Tre vittime e due feriti. Jack è arrivato dopo, «ero a una festa di compleanno »: ha trovato i corpi a terra e gli schizzi di sangue sulle pareti e la vetrina dove adesso qualcuno ha scritto “il nostro amore è più forte del vostro odio”.
I dissidi in famiglia
Stretta in un parka con cappuccio che la ripara dal vento gelido, Abaned dice: «Tutti vi state chiedendo perché il killer (non lo chiama mai per nome, ndr ) ha ucciso la madre ma non il padre… ». È, in effetti, la prima tessera non ancora a posto. «In zona la storia la sappiamo, ma adesso abbiamo tutti paura». Già. Come mai nella casa a schiera di Helmholtzstrasse, dove viveva coi genitori, Rathjen scarica i colpi della Glock 17,9 addosso alla madre settantaduenne e non sfiora il padre, tre anni in più? Che cosa lo ferma al momento di chiudere il cerchio della “soluzione finale”? La voce che corre sulle bocche di Kaesselstadt — questo quartiere popolare ad alta densità di immigrati che ha incubato l’odio del killer — può aiutare a capire. Ciò che pensavano mamma e papà dell’impasto di razzismo e cospirazionismo che avvelenava il figlio: è questo il punto. Da quanto emerge, mentre la madre sembrava esasperata e per nulla accondiscendente di fronte alle continue tirate di Tobias contro gli stranieri e le «razze inferiori», al padre la deriva imboccata dall’erede, impiegato di banca, la passione per le armi e i film di spionaggio, non avrebbe mai procurato particolari fastidi.
Il giallo del padre
Padre e figlio condividevano le stesse idee xenofobe? Gli immigrati in Germania rappresentavano un “pericolo” per entrambi? Sono domande a cui potranno rispondere compiutamente solo gli investigatori al lavoro sul materiale sequestrato nella casa di Rathjen (pc, telefoni, documenti, libri, oltre ovviamente all’arma del delitto e alle altre due pistole detenute dal killer, titolare dal 2013 di un porto d’armi ad uso sportivo). Il trilocale con giardino dove, mercoledì notte, i reparti speciali della polizia hanno trovato i cadaveri dell’attentatore e della madre. E dove, dopo la strage, le teste di cuoio hanno subito prelevato il padre superstite. Perché? Quanto pesano le indiscrezioni della stampa tedesca — non ancora confermate dalle autorità — secondo le quali anche Rathjen senior, come il figlio, sebbene con toni meno paranoici e ossessivi, e senza menzionare «servizi segreti deviati» al servizio di improbabili «società occulte », sarebbe un grafomane aduso a scrivere lettere alle istituzioni per segnalare problemi legati all’immigrazione? Riscontrando i suoi racconti (l’uomo in passato è stato candidato con i Verdi) si verrà a capo dei quesiti sulle dinamiche familiari del quarantatrenne estremista di destra, quasi certamente un cane sciolto, che ha firmato la carneficina del 19 febbraio.
Il nazista della porta accanto
Un puzzle utile a comprendere non soltanto il canovaccio della strage degli shisha bar. Ma anche e soprattutto da dove e da quando ha iniziato a fermentare l’avversione suprematista di Rathjen contro le «popolazioni da sterminare». Loro. La gente di qui, del quartiere. Palazzi simili a casermoni. Una finta piazza con intorno un kebabbaro, un fruttivendolo, un bar tabacchi e una farmacia. Giri l’angolo ed ecco, accanto al parrucchiere Salon Simon, l’Arena bar. È il cuore commerciale di Kaesselstadt. Non una banlieue. Ma nemmeno l’immagine di una contaminazione felicissima con i “nuovi” tedeschi. Gruppi di famiglie rom, case modeste e in strada, però, anche Mercedes e Audi da centomila euro nuove di zecca. Il commissariato di polizia è a ottanta passi dal primo luogo scelto da Rathjen per la sua pulizia etnica. «Qui all’Arena vengono tutti — racconta Jack — turchi, curdi, ispanici. Siamo una grande famiglia. Tedeschi? Tre o quattro a settimana, non di più». Uno, il lupo Tobias, è venuto solo per sparare.
Il sopralluogo del killer
Al Midnight invece ci aveva fatto un sopralluogo: berretta nera in testa, giaccone verde militare, sneaker. Dai video delle telecamere sembra un ragazzino. Lo studente delle scuole superiori di cui qualche compagno, ieri, ha ricordato «era già fuori di testa». Mentre sui luoghi della mattanza la gente depone fiori e candele, le undici croci piantate dalla furia razzista di Rathjen, ventiquattro ore dopo, portano dolore e paura nella sede del Centro culturale internazionale turco. «Stiamo vivendo un incubo», dice uno dei responsabili, Eren Okcn. Nella Spoon River di Hanau la metà delle nove vittime (poi ci sono l’attentatore e la madre) sono turche e curde. «Oggi manifesteremo in centro contro razzismo, neofascismo e neonazismo. Siamo preoccupati. In città ci sono otto moschee e l’estrema destra qui è in crescita. Afd alle ultime elezioni ha preso il 14%». Alle otto di sera, in città, si sentono ancora sirene. È un incidente stradale. La psicosi del male è ormai sotto pelle.
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