Luoghi della memoria certo, ma soprattutto portatori di innovazione Le istituzioni culturali sono il cuore di un passato che deve guardare al futuro
di Melania Mazzucco
Per molti mesi, ogni giorno sono passata davanti al portone del museo più visitato d’Italia. Nel piazzale dove fino a poco tempo prima fra le transenne s’incolonnavano i turisti sono cresciute le ortiche e sbocciati fiori di campo. I turisti torneranno. Ma la visione di quello spazio deserto e di quel portone sigillato — identica in ogni città del Belpaese e del mondo intero — resterà indelebile. E potrà, e dovrà, generare riflessioni costruttive sul futuro. Il vuoto nel cuore dei nostri musei ha infatti accelerato il processo di ripensamento del loro ruolo, già in atto da decenni, ma ormai indifferibile.
È questo lo scopo de Le memorie del futuro. Musei e ricerca di Evelina Christillin e Christian Greco (Einaudi, collana Le Vele). Presidente del Museo Egizio di Torino la prima, e direttore dello stesso il secondo, in questo volumetto di 137 pagine, dalla ricca bibliografia ma di agevole lettura, i due ripercorrono la storia dei musei dall’antichità ad oggi, passando per Giovio, Aldrovandi, Ashmole, Sloane, i miliardari americani di fine Ottocento e arabi del Louvre di Abu Dhabi, e sollevano una serie di dilemmi e interrogativi che le trasformazioni in atto nella società contemporanea non permettono più di eludere.
Concretamente, i musei sono istituzioni permanenti senza scopo di lucro, che hanno per fine lo studio, l’istruzione e il diletto. Ma non immobili, tanto che si addicono loro solo verbi dinamici: «collezionare, preservare, studiare, interpretare, esporre, accrescere la conoscenza». Simbolicamente, però, i musei sono «teatri della memoria», il luogo «dell’alleanza fra potere e ricordo», perché «chi detiene il potere si impossessa non solo del passato, ma anche del futuro (…) Il potere si legittima retrospettivamente e si rende eterno prospettivamente». La costruzione del ricordo è dunque il propulsore primo del museo — e ciò lo sottrae alla neutralità “naturale”, nei periodi di conflitto trasformandolo in bersaglio di chi quel ricordo rifiuta o in quella memoria non si riconosce.
Il XXI secolo è stato infatti scandito da attentati al patrimonio. Distruzioni immani e irreparabili sono state inferte nei musei o nei siti archeologici per motivi religiosi, etnici e politici — a Bagdad, Bamyan, Ninive, Nimrud, Mari, Dura Europos, Ebla, Aleppo, Timbuctù, Mosul… Devastazioni pubbliche, celebrate con video diffusi in tutto il mondo. Statue polverizzate dalle bombe, scalpellate, vandalizzate, mummie date alle fiamme, manufatti razziati. Un assassinio di cose e persone (come l’archeologo Khaled al-Asaad, martirizzato a Palmira nel 2015) che mira a cancellare il passato e la sua memoria, a recidere il legame fra quegli oggetti e il presente e a riscrivere l’identità futura. Ma fenomeni di iconoclastia hanno investito recentemente anche l’Occidente, con la distruzione e la rimozione di statue di esploratori, politici, benefattori ai loro tempi ma oggi ritenuti imperdonabilmente razzisti, schiavisti, genocidi. Cancel culture che suscita adesione o ripudio — perché l’azzeramento del passato e la sua condanna all’invisibilità può preludere a nuovi negazionismi.
Così anche i musei sono stati investiti dal processo di decolonizzazione, che li ha costretti a rendere nota la provenienza delle opere d’arte, degli oggetti sacri e d’uso quotidiano che espongono — spesso frutto di campagne militari, occupazioni, invasioni: tutti i dittatori, da Napoleone a Hitler, hanno sognato di costruirsi il museo universale, che riunisse la bellezza del mondo da loro sottomesso. Ma pure di acquisizioni opache, illegali se non rapinose. Avvenute nel passato prossimo (come i quadri dei collezionisti ebrei, costretti a privarsene negli anni del Terzo Reich), ma anche remoto: esiste la prescrizione pe r l’esportazione dei marmi del Partenone venduti a lord Elgin (chi aveva l’autorità per concederla?), o per il saccheggio di Benin City, perpetrato dagli inglesi nel 1897? La questione della restituzione resta un punto dolente. Chi si oppone accampa la superiorità culturale occidentale, per la tutela di un bene, non garantita nel paese d’origine. Ma solleva anche un’obiezione filosofica. A chi appartiene il passato? La mobilità globale e le migrazioni di massa fanno emergere diversità culturali di minoranze non più silenti, e stanno conducendo a un «allentamento del concetto di continuità spazio-culturale che lega la popolazione residente in un determinato territorio». E rompere «il legame identitario fra nazione e patrimonio » è un abuso o potrebbe anche essere un modo di smorzare pericolosi nazionalismi?
Restituire è un gesto politico, diplomatico o semplicemente etico. Forse non è un caso se gli episodi più clamorosi riguardano figure di donna: sia essa immagine di marmo o di bronzo di una dea, come la Venere di Leptis Magna, la Venere di Cirene o la Venere di Morgantina, o di una persona, come la Venere ottentotta, Saartjie Baartman, la schiava nera costretta a esibirsi nei baracconi e nei teatri scientifici francesi (a lei il regista Kechiche ha dedicato un potente film nel 2011): i suoi genitali, il cervello e lo scheletro sono stati restituiti al Sudafrica solo nel 2002. La “repatriation” di resti umani di aborigeni, indiani d’America, polinesiani reclamati dalle comunità native è ancora in atto. Dunque contestualizzare i reperti esposti, la cultura materiale che testimoniano o la cultura che li ha trasformati in “opere” — insomma, “biografare” gli oggetti, «rimotivare la conoscenza del passato» sarà compito sempre più vitale dei musei, che non possono più essere concepiti unicamente per la custodia e la conservazione, ma devono diventare poli di innovazione e ricerca interdisciplinare.
Infine — ma forse, dopo la pandemia, soprattutto — devono ricostruire un legame con gli abitanti delle città e dei luoghi nei quali si trovano. Un’indagine Istat del 2017 rivelava che il 73,2% degli italiani non aveva mai visitato un sito archeologico, e il 67% un museo. Gli autori non offrono risposte semplici a interrogativi complessi, piuttosto stimoli: perciò la lettura di questo libro è consigliata a tutti gli studenti (delle facoltà umanistiche e scientifiche, i quali scopriranno quante professionalità occorreranno ai musei futuri), agli amministratori e agli appassionati flâneurs dei musei del mondo: affinché davanti a un feticcio, un quadro o un tiki, non si limitino ad ammirarlo, ma si chiedano da dove viene, perché è lì, e quale è il suo legame con noi. C’è sempre.