di Alberto Arbasino
«Arte & Vino»! Alla Gran Guardia veronese! «Libiamo nei lieti calici!»… Grappoli, brindisi, pampini! Show Food! Ma non soltanto baccanali con fauni e putti più o meno sconciamente ebbri, per favore. E sileni che si comportano malissimo. Bacco, poi…
Ma qui — Bacco e Sileno, si sa… — soprattutto Noè e Lot offrono esempi davvero pessimi. In presenza di giovani ragazze, oltre tutto. Figlie, nubili? Che vorrebbero mangiare, forse?
Mai si vedono accuditi da giovanotti disposti a mettere a dormire gli ubriachi, avvinazzati. Sarà la prima volta? Lì per terra?
E la pulizia o lavanda dei piedi? Mentre si sta mangiando… Acqua calda e vino, altri pasticci…
E le Nozze di Cana? Bianco, o rosso? Sarà una ciofeca, oppure buonissimo, senza guardare l’etichetta di provenienza? Pronti a bere qualunque vino, purché vino?
Vino e tutor, futuro, hi-tech, sharing, progetti, design, avanguardia, laboratorio, smart, app, green, archistar, art director, metropoli, megalopoli…
Macché. Secondo questa ricchissima tradizione vitivinicola, una tipicità ricondotta al territorio. Caravaggio, Tiziano, Velázquez, Veronese, Tintoretto, Poussin, i Carracci, Tiepolo… Nonché cantine e vendemmie e rinfrescatoi e ubriaconi di Stanzione, Carpioni, Lotto, Ricci, Mola, Reni, Giordano, Cavallino, Conca, Manfredi, Longhi, e molti altri, fra dotte disquisizioni su porcellane e sacri catini e origine dei vitigni coltivati. Vernacce…
E così, via col «vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante, come il riso dell’amante»…
Qui, però, le famose bottiglie e i bicchieri di Giorgio Morandi emanano soprattutto stanchezza, fiacchezza, astenia. Sono forse più invoglianti i mesti servizietti di De Pisis? Certo più stimolanti i fiaschi di Guttuso. Non si capisce invece perché Il bevitore di Anacapri di Fortunato Depero si chiami così.
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Natura nutrix, Homo vorax, Magic boots, Sweet look, Parallel universe, Violent necessity, Million stone, Beyond the sky, Ideal city, Behind food sustainability, Scattered rhymes, Alphabet of memory, Portable classic, Scent of dreams, Logic of passage, Dear water, Collected landscape, Alchemy of matter, Dancing solar flowers, Natura naturans, Rape of Venice… Pallidi gentiluomini veronesi, Valentino e Proteo. Ignari di guelfi, ghibellini, Capuleti, Montecchi…
Allora, adesso, via con L’idea del Theatro , di Giulio Camillo, a cura di Lina Bolzoni, alla Casa delle Letterature, nel chiostrino degli aranci… a Roma… (con Corrado Bologna, ed Edoardo Camurri)…
Ma fra Cà Corner della Regina e gli Asolani del Bembo e il Doppio ritratto di amici umanisti del Pontormo, attualmente in Palazzo Cini a San Vio, Giulio Camillo fra Padova e Bologna e Genova e Milano può disporre un convivio luminoso.
Sol, Lux, Lumen, Splendor, Calor, Generatio. Ma chi sa ricordare che nei cassetti o sportelli della memoria sotto il Sole e la Luce vi sono il Padre e il Figlio, mentre l’Anima e il Mondo e il Caos vanno sotto il Convivio. E Apollo, che dovrebbe sovrintendere? E gli altri dei, da Giove e Marte a Venere e Diana?
Hanno tutti un loro significato, le piramidi e gli obelischi e i riccioli barocchi o rococò? Finisce per diventare così importante, per i pericolosi enigmi cabalistici e magici della Sfinge, la distinzione fra «il nocivo, lo strascinato, il ribattuto, il rimosso, il divino, l’escluso, il rovesciato, l’abatuto et urtato» e «il percosso, il penetrato, il fiaccato, il rotto, il pestato, il roso, il tagliato» (ecc. ecc.). E le differenze fra i vermi e serpenti gambuti e non gambuti… O ci si rassegna (e rasserena) con quei pensatori di massa che non provano conflitti con nessuna tradizione, perché non conoscono le tradizioni… E che sarà mai, questa perdita della tradizione, così poco «glocale», ripetono magari certi adepti di Asor Rosa…
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Torna così in mente una lontanissima cena, a Spoleto. Si era a tavola con Filippo Sanjust, parlando deII’ Erismena di P.F. Cavalli. Ne aveva appena fatto la regìa, lì al Caio Melisso. Ma sopraggiunse Frances Yates, autrice de L’arte della memoria ; freschissima nonostante l’accompagnamento einaudiano un po’ stanco. Ripeteva autorevolmente: «Quite! Quite!». E come spiega bene la Bolzoni, «l’opera è in legno, segnata con molte immagini e gremita, in ogni parte, di piccole cassette; ha assegnato il suo posto a ogni figura, a ogni singolo ornamento». Torre, e cassettini… E almeno uno c’è entrato davvero, in quel Theatro di Giulio Camillo. Ma dove, e quando? E come? Era veramente in legno?
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Per Toti Scialoja, «Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte». E di lì, dediche. «Con ammirazione, con gratitudine, con un caro abbraccio… Vuoi un mio abbraccio? È tuo!… Questo libro lo devo a te!…». E parecchi dipinti, nel mio ingresso: un «blueveined» dei 75 sotto un costume a demi-pois di Giosetta Fioroni. Una vera collezione di autentici stronzi, dell’83, sotto ciclamini piuttosto carnali di Gianni Testori, accanto a una testa di marinaio di Lorenzo Tornabuoni. E lì intorno, Pasolini, Maccari, Guttuso, Lichtenstein…
Vecchi tempi… Toti e Gabriella in attesa di Princess Margaret per una sua visita a uno studio d’artista, con amici ben messi… Milton Gendel.
In Piazza Mattei… Però c’era un nostro momento squisito: quando uscivano come danzando dal fax i suoi topini. O talpini.