Annunciando il progetto di Italia viva di lanciare un referendum per cancellare il reddito di cittadinanza, Matteo Renzi ha motivato la scelta con un argomento morale: la legge deve educare al lavoro, e questa legge educa all’ozio. L’argomento contro la morale plebea, che circola tra i benestanti, è esplicito: coloro che hanno meno sono anche i più fannulloni, e la legge deve strigliarli invece di viziarli con seicento euro mensili. Una logica ottocentesca. La Poor Law inglese del 1834 istituì le “case del lavoro” dove venivano rinchiusi i vagabondi per essere “educati” al lavoro servo, richiestissimo dagli industriali.

Dopo tutto, l’insegna “il lavoro rende liberi” sui cancelli di Auschwitz veniva da una concezione radicata nella cultura religiosa e laica europea: il sacrificio educatore di “vera” libertà, un orrore che Isaiah Berlin smontò come espediente di una perfetta servitù. Ad ogni modo, il liberalismo progressista ha messo radici contro questa visione.

Nel 1850, J.S. Mill ingaggiò un’aspra polemica con Thomas Carlyle, critico da destra della modernità, che aveva denunciato la nascita di unioni sindacali come sintomo della “malattia” moderna dei diritti e del declino dell’etica del lavoro che serve a far emergere l’aristocrazia naturale. Così Renzi oggi: si deve rischiare un lavoro mal pagato e la disoccupazione se si vuole che emergano brillanti imprenditori e start up.

Mill rovesciò questa logica, e al “vangelo del lavoro” contrappose il “vangelo del tempo libero”. Dissociò il lavoro dal valore e lo rese agire funzionale associato a fatica, sofferenza, necessità di sopravvivenza. «Lavorare, credo, non è un bene in sè. Non c’è nulla di lodevole nel lavoro” se non in quanto consente di avere agio e tempo sufficiente per fare altre cose, per esempio quelle che gli aristocratici hanno da sempre identificato con «la raffinatezza dei costumi e gli ornamenti della vita».

Di qui Mill ricavò la giustificazione del diritto al lavoro: in quanto necessità universale, il lavoro è un bene strumentale da distribuire equamente; è un diritto perché una necessità. «Contro il ‘vangelo del lavoro’ – concludeva Mill – asserisco quello dell’agio, e sostengo che gli esseri umani non possono elevarsi alle attitudini più raffinate di cui la loro natura è capace con una vita riempita solo dal lavoro». Lo stesso scrisse Vittorio Foa: «Nella generalità dei casi si vuole lavorare perché il lavoro è necessario ma lo si disvuole per la sua pena» che la remunerazione, i diritti e le tutele solo parzialmente riescono a lenire.

In alcuni paesi tra cui l’Islanda, si sta sperimentando la settimana lavorativa di quattro giorni a parità di salario. Gli esiti mostrano che la produttività aumenta se il lavoro è trattato come una sofferenza da lenire. Questa non è la filosofia di Renzi che come Carlye vuole educare alla fatica, quale che sia il lavoro (ammesso che ci sia) e la sua retribuzione.

La stessa logica che ha spinto il governo greco ad estendere la giornata lavorativa da otto ore a dieci. Educare al sudore. Una vecchia filosofia, né progressista né illuminata.

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