Paolo Di Stefano
Chissà che cosa ne direbbe Leopardi. Bella domanda. Ma in realtà ciò che Giacomo Leopardi avrebbe da dire sul coronavirus l’ha già detto più volte. Nelle Operette morali, nei Canti e nello Zibaldone. Chiedete ad Antonio Prete, lo studioso che quarant’anni fa diede la sua impronta alla lettura dello Zibaldone con un saggio destinato a diventare un classico, Il pensiero poetante. Prete vi citerà il Dialogo della natura e di un islandese, il Cantico del gallo silvestre e naturalmente La ginestra. Poi una serie di passi dai quaderni di diario.
ANTONIO PRETE — In molti testi Leopardi riflette sul rapporto con la natura e sulla condizione di sofferenza costitutiva dell’uomo. Si potrebbe dire che per lui la natura va considerata come physis, principio di vita che ama la vita, nascita e morte, fiorire e sfiorire… D’altra parte, l’uomo tende a separare il suo respiro dal respiro della natura, e qui si crea una disarmonia: l’uomo costruisce un tipo di civiltà fatto di fole, di fantasticherie, di illusioni tipiche di un secolo che pensa, con le magnifiche sorti e progressive, di superare le contingenze e i limiti della natura. La ginestra mostra invece che nel movimento dell’universo sta dentro anche l’uomo. Altrove troviamo l’indifferenza della natura proveniente dal fatto che l’uomo crede, senza considerarsene parte, che essa debba provvedere a lui.
Leopardi ci mette anche di fronte alla coscienza del limite, ricordando a noi, uomini della modernità ipertecnologica, che non siamo propriamente onnipotenti. C’è voluto un virus per richiamarci a questa consapevolezza.
ANTONIO PRETE — È il senso della caducità, l’assumere su di sé la coscienza dell’appartenenza al limite naturale. Su questo si basa il «retto conversar cittadino» della Ginestra, la costruzione di un mondo in cui il senso del limite sia il principio della relazione tra gli uomini: caducità e appartenenza, ricerca dell’armonia con il ritmo della natura… C’è un passo giovanile del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica che ogni tanto torna in altri scritti: è la domanda su come abitare la natura in un mondo snaturato dalla storia e dalla civiltà, che hanno incrostato e compromesso la natura. In questo ambito si inserisce la malattia. Da una parte ci tocca riconoscere che noi con la malattia apparteniamo all’universo della natura, siamo viventi tra viventi; dall’altra c’è una questione di conoscenza, per cui Leopardi non rinuncia alla possibilità che l’uomo, attraverso la scienza e l’immaginazione, possa contribuire a costruire rapporti di una qualche armonia. Rapporti fondati sul riconoscimento del dolore che è proprio della condizione umana. In quel dolore c’è l’individuo, e l’individuo che patisce chiama prossimità e compassione.
Prima della compassione c’è, oggi più che ai tempi di Leopardi, una vita ordinaria trascinata in meccanismi automatici e ripetitivi che impediscono di pensare agli altri: è quanto osserva il filosofo Salvatore Natoli, cui si devono saggi sulla modernità in rapporto con l’etica e con il sacro, sul «buon uso del mondo», sulla felicità e sul dolore.
SALVATORE NATOLI — Quando il tempo scorre nelle sue forme ordinarie e automatiche, si insinua il rischio di vivere senza pensare. In una società, come quella contemporanea, programmata per scadenze e ritmi, l’uomo è condotto da volontà esterne, non da altre persone ma da una macchina impersonale, la stessa macchina che oggi, nell’emergenza, stiamo riadattando come possibilità di comunicazione eccezionale rispetto alla regola. Ne Il buon uso del mondo distinguevo tra il fare e l’agire: il fare è orientato al prodotto, al manufatto, mentre l’agire è orientato dal soggetto, che si dà una meta e una scelta. Come dicevano gli antichi, l’uomo è sempre in azione anche se è fermo: scegliere una meta è anche valutarla, mettersi in una prospettiva etica, quando tu scegli tra bene e male ti ergi a soggetto responsabile. Nella nostra società, in cui il fare corrisponde a funzioni e prestazioni esterne, operiamo senza mai riflettere sulla destinazione delle nostre azioni: è quello che Marx chiama alienazione. Naturalmente, non bisogna aspettare le catastrofi complessive per essere presi controtempo e fermarsi: c’è un dolore individuale, in cui anche se il mondo continua ad andare avanti il soggetto viene problematizzato e tocca a lui gestire la crisi. Nel momento in cui invece si verifica un evento che spezza l’automatismo della vita sociale complessivamente, con un tempo comune regolato dai ritmi della collettività e della produttività sociale, si ferma tutto: in una situazione di vita centrata sull’automatico, sulla rete, sulla filiera, salta tutto, come accade oggi. La dimensione della contemporaneità, quella di un mondo predisposto, soffre più che in passato queste crisi, perché nell’ordinario noi siamo più protetti. Mentre un tempo la frequentazione con la catastrofe era maggiormente presente perché eravamo più esposti, adesso, con questi elementi impersonali di rete, quando il sistema automatico si blocca, si blocca tutto e cresce l’ansia: oddio, come ne esco… lo stipendio, le tasse, l’alimentazione, la famiglia, il lavoro… È un contraccolpo catastrofico: non solo di tempo ma di arresto del sistema sociale nel suo complesso. A questo punto bisogna rimodulare il proprio pensiero e il proprio stile di vita. Una volta che l’automatismo sociale è saltato, devi ridefinire il ritmo della tua vita, con tutti i guai: dove metti i bambini, la scuola quando riprende… Una catastrofe rispetto ai ritmi ordinari.
Qui siamo oltre lo stress, un concetto che ha invaso il linguaggio quotidiano e su cui la psicoanalista Simona Argentieri, con Nicoletta Gosio, ha scritto un saggio decisamente critico contro l’uso e l’abuso della parola e dell’aggettivo corrispondente («stressante»). Ci si chiede però come si sia trasformata l’idea consueta di tensione in questo periodo di stravolgimento del tempo e dei rapporti umani. E quali siano le reazioni psicologiche più ricorrenti in questa emergenza.
SIMONA ARGENTIERI — È ancora relativamente presto per dirlo. Una persona mi ha detto acutamente che sente di avere avuto bisogno di un processo «sequenziale», a tappe, per rendersi conto di ciò che sta davvero accadendo nel mondo. Tutto in una volta non era possibile contenerlo nella mente, a livello cognitivo ed emotivo; scatenava troppa angoscia. Credo abbia ragione e che ciò valga anche per noi tutti. Solo progressivamente stiamo diventando consapevoli della portata di questo evento, delle sue conseguenze e delle cause remote. Forse pensare già al «dopo» — come stiamo un po’ facendo — è una fuga in avanti per contenere l’ansia dell’incertezza. È positivo guardare al futuro, purché sia un impegno attivo, accompagnato da una serena autocritica individuale e collettiva. Non un’inerte attesa che «passi la nottata». Mi hanno colpito le contraddizioni, non mi riferisco ai comportamenti opposti delle diverse persone, come è prevedibile e naturale che sia. Ma agli atteggiamenti contradditori di singoli individui, che possono ad esempio virare disinvoltamente nel giro di poche ore dall’attacco svilente ai medici e agli operatori sanitari, a una sorta di venerazione per il loro ruolo di «eroi» civili. Oppure penso all’oscillazione dalla gratitudine e dal rispetto delle norme restrittive che ci proteggono, alla ribellione adolescenziale contro chi si permette di limitare i nostri impulsi, vissuti come un diritto.
SALVATORE NATOLI — È ovvio che ogni soggetto rimoduli il proprio stile di vita per conto proprio, ma anche una società iperconnessa ha bisogno delle istituzioni: mai come adesso riappare una figura per lungo tempo vissuta con fastidio, cioè lo Stato. È riemersa la richiesta di quella guida generale che nella vita corrente e ordinaria è un impaccio, se è vero che il liberalismo pretende uno Stato minimo. Mentre in genere ogni intervento del legislatore limita le libertà, adesso si invoca l’opposto: anzi, si accusa lo Stato di non fare abbastanza e di non essere stato tempestivo nel dettare la norma. Si arriva persino a evocare il modello della dittatura cinese… Agli inizi si diceva: stiamo a vedere, non chiudiamo tutto, non si può bloccare l’economia; poi gli stessi che chiedevano di non chiudere tutto hanno rimproverato il governo di essere stato troppo lento… Da questo punto di vista il racconto manzoniano della peste rappresenta benissimo gli stadi della coscienza collettiva: l’incertezza, la paura, la richiesta di intervento, di aiuto, di legislazione. Questa esperienza potrebbe suggerire un nuovo welfare e una rivalutazione dello Stato sociale.
D’accordo, ma conserveremo davvero memoria della catastrofe? Riusciremo a capitalizzare il trauma, a trarne un utile insegnamento? Qualche sincero dubbio proviene da Eugenio Borgna, lo psichiatra-saggista che ha riflettuto a lungo sulle figure dell’ansia, sulla fragilità, su concetti desueti come responsabilità e ascolto.
EUGENIO BORGNA — La fragilità ha sempre fatto parte della nostra vita, ma rimane nascosta, è ritenuta inutile. Non tutti ce ne accorgiamo di essere fragili, cerchiamo di ignorare o di sottovalutare la debolezza come handicap dal quale rifuggire. Oggi però riemerge con colori e con tensioni sconvolgenti molto più di quel che è accaduto finora. Non riusciamo più a controllarla, grazie a questa ondata esterna e sconosciuta di sofferenza e di malattia che ci sta sommergendo e che ha ridestato in noi le orme, le tracce, i cammini, le autostrade della nostra vulnerabilità che abbiamo sempre cercato di soffocare. La debolezza è la mia forza, ha scritto San Paolo, ma in questo caso la sentiamo come una grave mancanza, l’impossibilità di dare un andamento prevedibile alle cose che vorremmo fare: anche il semplice uscire di casa ha in sé rischi incalcolabili che la ragione calcolante, diceva Leopardi, non riesce a calcolare. La fragilità oggi più che mai somiglia a una sconfitta della ragione, rispetto a qualcosa che è fuori di noi e che è difficile da controllare e da regolare lungo i sentieri ai quali siamo abituati. Dunque, ha cambiato volto. Il volto della fragilità nel passato anche recente era senza maschera, in questa circostanza la minaccia e l’oscurità nascono da fonti sconosciute. Persino la guerra aveva orizzonti più chiari, mentre oggi il volto della fragilità è quello che Kafka ha descritto in romanzi come Il castello, in cui K si confronta con una oscurità inconoscibile. Conoscere anche qualcosa di terribile significa comunque sapersi difendere o illuderci di difenderci: il volto del virus che incombe su di noi lo conosciamo solo nelle sue conseguenze, nella sua capacità di distruzione. Non sapere da dove viene il male di vivere è ancora più angosciante: le piccole forze aggressive e invisibili del coronavirus non si sa da dove provengono, quanto durano, come si comportano, verso quale futuro ci conducono. Questa produce una mutazione genetica della fragilità, che comporta una mutazione esistenziale. Nemmeno la più piccola stella del mattino riesce a dare un po’ di luce alle giornate assediate da questa minaccia. È un nemico ignoto da cui ci difendiamo rimanendo chiusi in casa. Ricordarsi — dopo — di tutto questo? Sono promesse che ciascuno può fare a sé stesso, ben sapendo che anche quelle promesse sono fragili, visto l’andamento abituale cui la modernità ci costringe: si finirà vittime della forza dirompente dell’oblio. La memoria è continuamente divorata da quello che accade qui e ora.
SIMONA ARGENTIERI — Neanch’io credo molto ai cambiamenti indotti da situazioni esteriori, ambientali. Quelli sono solo aspetti comportamentali di superficie. I veri cambiamenti prevedono la trasformazione della nostra struttura psicologica con un lavoro profondo su di sé; che andrebbe costruita in tempo di pace. Sono scettica circa l’opinione diffusa che la penosa esperienza ci renderà più maturi e più buoni. Può accadere che la forzata reclusione riaccenda il dialogo e l’intimità; ma a quanto leggo, talora ha invece incrementato la violenza domestica. E poi non mi piace l’idea punitiva che le disgrazie ci rendano migliori. La solidarietà, l’amore, il rispetto sono una cosa bella, non il frutto espiatorio del senso di colpa.
ANTONIO PRETE — L’altro orizzonte leopardiano è quello della compassione di fronte all’essere viventi tra viventi, sentirsi momento della luce e della bellezza dell’universo: l’individuo non è solo e dunque, essendo tutti nella sofferenza, la sofferenza chiama la partecipazione dell’altro che è, anche lui, ente souffrant. Si ha compassione per chi soffre, dice Leopardi, ma anche per sé come partecipe della stessa sofferenza, oltre che nei confronti di ogni cosa vivente, perché ogni cosa che vive soffre. È una pagina famosa dello Zibaldone del 22 aprile 1826, dove si parla del giardino come esplosione di luce e di colori, ma dove ogni cosa è toccata dal male… Compassione per sé nell’universo è compassione per l’universo perché anche l’universo si muove nell’orizzonte della finitudine. Indubbiamente oggi il mondo sanitario sta dando una grande lezione di compassione giorno per giorno, ora per ora. Ma noi, in generale, siamo nella condizione tremenda di non poter esercitare la compassione: vengono comunicati i numeri dei malati e dei morti, e dietro i numeri ci sono persone che non conosciamo… Ma soprattutto la compassione prevede una vicinanza fisica e materiale che ci è impedita, così come è impedito il rituale per i morti… Viene meno il rito del funerale, di una presenza che ha una tradizione e una civiltà alle spalle. Per dire dell’inizio della civiltà viene in mente il verso di Foscolo: «Dal dì che nozze e tribunali ed are…». Tutti gli antropologi, per studiare le culture, studiano le forme rituali dei funerali. Dunque, di fonte all’assenza di prossimità fisica, dovremmo essere in grado di ricomporre la compassione con una prossimità d’ordine morale e immaginativa…
Neurobiologo e medico, anche Lamberto Maffei lavora di immaginazione, come ogni scienziato: ha scritto l’«Elogio della lentezza» e oggi si ritrova in un mondo fermato dal virus, ha scritto l’«Elogio della parola» e oggi si ritrova, come noi tutti, in un profluvio di parole incerte e contraddittorie.
LAMBERTO MAFFEI — È un momento grave, piovuto su di noi in una fase di rivoluzione del nostro comportamento: il passaggio di mentalità verso la rivoluzione digitale era stato già abbastanza stressante, perché ci si era dovuti adattare a percorsi più veloci. Siamo precipitati in una situazione opposta, che ciascuno di noi deve affrontare a suo modo. Immagino che un milanese di grande attività che considerava ogni minuto una cosa preziosa da sfruttare, ora, guardando il cielo e la natura, sentirà che quel tempo è diventato niente. Penserà che forse è intervenuto un diavolo o un nuovo dio che gli dice: ecco, adesso basta. Si potrebbe dire che per alcuni si tratta proprio di un’apocalisse che può causare depressione o disperazione, anche se non perdi lo stipendio e hai un appartamento sufficientemente grande in cui abitare: il «non poter più fare» può presentarsi come una catastrofe. Se dovessi consigliargli di leggere qualcosa, gli consiglierei un romanzo, un distraente come un farmaco. Io recentemente ho letto l’ultimo libro di Murakami, L’assassinio del Commendatore, che forse non è il suo libro migliore ma riesce a distrarre. Sarebbe un vero farmaco capace di portarlo via dalla tristezza, aumentata dalla televisione che ingoiamo come cibo amaro dei nuovi contagi e dei nuovi morti, i nuovi, i nuovi, che sembrano non finire mai… Altre persone saranno più pacate: per leggere una poesia bisogna avere un’interna pacificazione… e allora qualcuno sarà anche contento di ritrovare Dante, Ariosto, o le poesie che aveva studiato a scuola. Poi ci saranno le persone con figli che devono fare i compiti, e magari quelle senza stipendio… Cosa faranno? Difficile consolarle con una lettura. Senza mangiare non si può neanche pregare, ma io gli direi di pregare. Non resta che sperare oltre la speranza. Il mio libro sulla lentezza è un invito alla riflessione prima del fare: per me vivere la vita fino alla morte come una corsa è qualcosa di demoniaco, di non adatto alla fisiologia umana. Mi chiedo: questo obbligo del riposo servirà a farci riflettere di più? Non è un caso che la gente è tornata a leggere La peste di Camus. Forse per poter dire che se lì l’epidemia è finita, finirà anche per noi: come passano gli uomini, passano anche i virus.
A leggere i romanzi sulle epidemie, da Manzoni a Camus a Saramago, si scopre che la malattia, equivalente al Male, si presenta sempre come una metafora morale, una cesura, una rimessa in gioco e un’occasione di riflessione e di cambiamento. I romanzi potrebbero insegnarci qualcosa.
ANTONIO PRETE — La letteratura ci rappresenta il male nella sua fisicità cercando di costruire una narrazione e una forma di dialogo con la malattia. Il dialogo è fatto anche dall’utopia, per esempio in Boccaccio si crea un tempo altro che è quello del raccontare e che è in dialogo con il tempo tragico della peste: il Decameron è la rappresentazione di come davanti alla tragedia sia possibile ricomporre un tempo altro che ha un suo ritmo di decoro, di gentilezza, di canto, di musica, di narrazione… Ecco che allora si mostra come, proprio in virtù di quel male, il compito dell’uomo sia quello di costruire un tempo etico ed estetico: il poeta e il narratore lo fanno con l’immaginazione. In Camus non c’è solo una lettura della malattia ma anche un principio di ricomposizione di una nuova dimensione, attraverso l’immaginazione: questa è una risorsa dell’uomo quando si mette in dialogo con il male. Non è distrazione dal tempo, è come Primo Levi che nel Lager richiamava alla memoria Dante, tutt’altro che un non voler vedere, ma un rispondere alla tragedia e alla sofferenza con l’immaginazione del poetare, del raccontare, del pensare… Ne usciremo cambiati? Io penso che qualche cambiamento potrà avvenire, ma non m’illudo molto che cambino gli eccessi e la voluttà dei consumi. Su questo piano ho qualche dubbio che prenda forma un senso della frugalità, del decoro, della misura. Ma forse sul piano delle relazioni… non vivere come fatto scontato il vivere insieme ma come una cosa preziosa…
SALVATORE NATOLI — Qualsiasi dimensione di crisi produce un mutamento e una riflessione. Ma molti non sanno che fare e vivendo di automatismi si sentono perduti: si trovano in uno stato di noia, in taluni casi di depressione o piuttosto di nevrastenia sottopelle. I figli non li vedi mai e questa nuova condizione ti permette di riscoprire il rapporto genitoriale. Le crisi creano sempre condizioni per qualcosa d’altro, magari possono nascere buone attitudini. Non sei abituato a leggere e prendi in mano un libro, ascolti musica. Dal silenzio e dall’ombra di morte si sviluppano relazioni di confidenza, non parli superficialmente con tutti ma solo con quelli da cui puoi avere una parola di conforto credibile. Sono elementi di medicazione del dolore. Ci si può interrogare sul senso delle cose da fare, su una nuova gerarchia di valori. Ma dopo saremo ancora solidali? L’umanità in genere dimentica. Questo tempo sarà sufficientemente lungo da farci apprendere il beneficio della solidarietà? Manzoni mostra che anche in quel contesto c’erano, oltre ai portatori di pietà, quelli che approfittavano del dolore. Oggi è uguale: l’amuchina che costa 30 euro, le mascherine carissime, senza dimenticare che se le borse crollano qualcuno guadagna e alla fine ci saranno persone che si sono arricchite. Trasformare la crisi in opportunità? Sarebbe meglio che le crisi non venissero e che fossimo capaci di cambiare nel tempo ordinario.
LAMBERTO MAFFEI — Non sono sicuro che questo arresto del tempo porterà qualcosa di positivo… Certo, abbiamo provato che dobbiamo stare insieme per essere più buoni e solidali: noi popolo italiano individualista, che in genere non ama le regole, diventeremo più regolari e attenti alle leggi? Non ci credo. Passeranno due o tre mesi e riacciufferemo il nostro Dna. Anzi, ci sarà forse persino un rimbalzo: ora che finalmente mi posso muovere, corro, nel senso del fare, del consumare… Non vedo un futuro in cui l’esperimento che ha fatto la natura su di noi dia luogo a un uomo migliore.
EUGENIO BORGNA — Calamità come queste ci collocano in una stanza, quella stanza che secondo Pascal ci consente di cogliere quello che siamo. Forse sta accadendo oggi, essendo costretti a vivere in isolamento. Il rischio non è solo quello della paura ma dell’essere inghiottiti dal nostro io, l’egoismo di considerarci monadi, di isolarci troppo, di chiudere le finestre. La paura diffusa forse ci rende più consapevoli e ci aiuta, ci tiene in allarme e ci apre gli occhi, ma ci rende anche schiavi gli uni agli altri, non ci consente di distinguere la presenza amica dalla presenza inquinata dal virus. La minaccia del contagio, al di là di ogni nostra intenzione, ci oscura e rischia di non consentirci relazioni interpersonali anche nel momento della sventura, mentre proprio nei giorni della sventura la salvezza dovrebbe nascere in noi. Temo che in queste condizioni la sventura ingigantisca i sospetti, impedendoci di fare quel cammino interiore che la «stanza» potrebbe permetterci di fare.
SALVATORE NATOLI — Ho notato che quando si è presi da un pericolo vicino, sparisce la preoccupazione per gli altri: dov’è la Siria? Dov’è la Turchia? Dov’è finita la disperazione dei migranti? Siamo cresciuti su un fantasma falso, strumentalizzando quelle morti nel bene e nel male, e adesso è tutto sparito. David Hume dice che preferiamo la distruzione del mondo a un graffio sul nostro dito…