Così siamo diventati prigionieri
di un presente senza prospettive
Quando il cammino della storia era più lento e la ruota della fortuna girava meno velocemente, eravamo abituati a considerare il futuro quasi come un prolungamento del presente per linee tratteggiate. Oggi il nostro presente appare tuttavia sguarnito, perché il peso del passato, che fungeva da zavorra stabilizzatrice nelle società tradizionali, è diventato leggero, mentre lo slancio verso il futuro, che aveva animato e orientato le società moderne a partire dal Settecento sotto il segno del progresso, è diventato debole.
A causa dell’incertezza diffusamente avvertita (per la mancanza di lavoro, le crisi finanziarie, il riscaldamento globale o il terrorismo), diventa sempre più difficile proiettarsi verso il futuro e pensare alle prossime generazioni. Acquistano un senso più pregnante le parole di John Maynard Keynes («l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre»). Anche per l’intensificarsi dei processi di modernizzazione e d’innovazione di cui non si riesce ancora a valutare la portata e che seminano, insieme, paure e speranze, diminuisce drasticamente la capacità di pensare a un futuro collettivo, di immaginarlo al di fuori delle proprie aspettative private.
Limitandoci ai problemi posti dall’ingresso delle nuove tecnologie, si moltiplicano le domande prive di sicure risposte. Ne elenco alcune, che toccano, direttamente o indirettamente, la vita di ognuno: come coordinare la crescente rapidità di calcolo e di esecuzione di programmi da parte di macchine e dispositivi, dotati di Intelligenza Artificiale e capaci di apprendere, con la maggiore lentezza degli umani? L’accelerazione del tempo umano nel tentativo di imitare la velocità delle macchine è perduta in partenza. Sono necessarie altre strategie, sia per gettare un ponte tra le operazioni quasi istantanee delle learning machines e i tempi necessari dello srotolarsi dei pensieri, delle decisioni e degli stati d’animo umani, sia per consentire la sopravvivenza di una democrazia in grado di deliberare in base alla discussione ragionata di progetti piuttosto che affidarsi a piattaforme di votazione rapida.
Come dovrà cambiare l’educazione quando si assiste alla crescita sempre più rapida del tasso di razionalità oggettivata nelle macchine grazie ad algoritmi incomprensibili ai più? Quando essa invade sfere sempre più numerose della vita e assorbe inesorabilmente, oltre che l’intelligenza, anche la volontà, delegata a guidare non solo macchine senza pilota, relativamente innocue, ma ominosi sistemi missilistici automatici o complessi strumenti che decidono in microsecondi le scelte degli investitori in Borsa? Continuando a ignorare l’urgenza di comprendere e reagire ai mutamenti in corso, si andrà incontro a una nuova ignoranza di massa. Malgrado la maggiore diffusione dell’alfabetizzazione e il maggiore peso del bagaglio di nozioni generali, si moltiplica, infatti, anche il numero degli idioti (nel senso greco del termine, ossia di persone private incapaci di partecipare con una sufficiente consapevolezza alla vita politica e culturale, perché chiusi nella particolarità del proprio lavoro e nei limiti dei loro immediati interessi).
Data la veloce obsolescenza delle nostre informazioni e delle stesse macchine, occorre introdurre urgentemente il sistema della continuing education, inventando dei modelli educativi che, scherzando ma non troppo, potrebbero seguire il modello dell’esercito svizzero (ossia prevedere, dopo la «ferma» delle scuole regolarmente frequentate, il periodico richiamo dei cittadini all’aggiornamento delle loro conoscenze e della cultura generale).
Si dovrebbe mirare, da un lato, sia all’aggiornamento in campo professionale, sia alla capacità di operare in processi che connettono il lavoro umano alle nuove tecnologie, così che gli uomini non diventino appendici stupide di macchine intelligenti; dall’altro a un genere di educazione in grado di superare la separazione tra saperi umanistici e tecnico-scientifici. L’estensione del modello del long life learning assumerà con gli anni un carattere sempre meno utopico a causa del progressivo incremento del tempo libero, reso possibile dall’applicazione delle nuove tecnologie ai processi produttivi.
A questo punto, le domande aumentano ancora, in parallelo alle incertezze sull’imminente futuro. Il nostro continuo contatto con i pensieri già «formattati», e scritti da altri, rischierà di ottundere la mente, di indebolire la volontà, di renderne sfocata l’immaginazione, di demotivare la creatività latente in ciascuno di noi fino a essiccare la stessa facoltà di giudizio? Attraverso le semplificazioni il pensiero articolato subirà pesanti penalizzazioni: sarà considerato involuto, poco chiaro? In questo modo, la semplificazione del pensiero, ridotto a tweet o a slogan, non andrà forse contro il compito della cultura che è quello di insegnare, semmai, a complicare, di mostrare le differenze e le sfumature tra concetti o azioni (il termine «concreto» deriva, del resto, dal verbo cum crescere, «crescere insieme», tener contro della pluralità dei fattori che si modificano insieme)?
Ancora: come cambierà, ad esempio, oltre che sul piano della digital fluency, la costruzione della personalità umana e l’idea stessa di educazione o di formazione (Bildung), quando gli individui, a causa della necessità di cambiare lavoro e di tenere il passo con cambiamenti sempre più rapidi, saranno costretti a sovvertirsi di continuo o a programmarsi esclusivamente in vista, trascurando una formazione più completa della propria personalità?
Come sarà possibile evitare che il sapere che dà potere si concentri nel vertice della gerarchia sociale, che si formi una élite di persone in grado di accedere ad algoritmi e banche dati lasciando il resto dell’umanità in condizioni di ignoranza e di povertà, che la conoscenza tecnica sia patrimonio di una oligarchia che lascia i più in balia di opinioni?
Che fare? Siamo tutti emigranti nel tempo: ci spostiamo dal presente noto verso un comune futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme, da cesura rispetto al successivo. Abbiamo bisogno della memoria del passato come esperienza e dell’attenzione del presente teso a «defuturizzare» l’avvenire. Ma anche, e indissolubilmente, dell’apertura a pensare il nuovo e il possibile, del futuro cui si accede a partire dalla discontinuità rispetto a quel che eravamo e pensavamo.