PIETRO CITATI
Lev Šestov nacque il 31 gennaio 1866, a Kiev, da una famiglia ebraica ricca e rispettata: il suo vero nome era Lev Isaàkovic Švarcman. A Kiev, fin da giovane, aveva assorbito la tradizione religiosa ebraica: del giudaismo comprese subito il dramma fondamentale; la fusione, nelle profondità di ogni uomo, della presenza e dell’assenza di dio. Nei profeti ebrei, dei quali coltivò specialmente Giobbe, che riteneva un filosofo superiore a Platone e ad Hegel, ammirò “L’incanto dell’inquietudine” – la sua ininterrotta, dolorosa ed allegra inquietudine. In tutta la vita Šestov esaltò la Bibbia contro la Grecia: sopra tutto contro Platone ed Aristotele: Gerusalemme contro Atene; così dice il titolo di uno dei sui libri più famosi. Come
Kafka, pensava che esistono, per noi, due specie di verità, rappresentate dall’albero della conoscenza del bene e del male e dall’albero della vita. Nella prima, il bene si distingue dal male: nella seconda il frutto dell’albero della vita non è altro che la vita stessa, ed ignora sia il bene che il male.
Šestov si sentiva contemporaneo sia di Dostoevskij sia di Tolstoj. Di entrambi, ma specialmente di Dostoevskij, condivise i pensieri e le ossessioni. Il 2 marzo 1910 visitò Tolstoj a Jasnaja Poljana; e la sua fuga e la sua morte alla stazione di Astapovo furono la sua fuga e la sua morte. Dopo Dostoevskij e Nietzsche. La filosofia della tragedia nel 1903 (Aragno, pagg. 58, euro 21), nel 1905 compose Apoteosi della precarietà (Trauben, a cura di Raffaella Faccionato, pagg. 210, euro 11). A Kiev, nel 1918, disse che la rivoluzione russa avrebbe spazzato via tutta la filosofia e la letteratura del passato: compreso lui, Šestov, «se avesse rifiutato di mettere il proprio talento al suo servizio». Con somma disperazione della madre fu rivoluzionario dall’età di otto anni: fin quando sulla scena apparve il “socialismo scientifico”. Detestò Stalin, sebbene meno di Hitler. Nel 1921 fuggì dalla Russia, e andò a Parigi, dove scrisse i libri maggiori: in primo luogo Sulla bilancia di Giobbe (Adelphi, traduzione di Alberto Pescetto, con un saggio di Czeslaw Milosz, pagg. 514, euro 30) e Speculazione e rivelazione (a cura di Glauco Tiengo ed Enrico Macchetti, Bompiani, pagg. 820, euro 28).
A Parigi visse con gioia scrivendo e sopra tutto conversando perché, per lui, la conversazione era una specie di letteratura superiore: non aveva mai conosciuto cosa fosse la “gioia della scrittura”. Oziò molto: «posseggo come pochi la capacità di non fare assolutamente nulla». Detestava tutto ciò che aveva, o sembrava avere, una “stabilità filosofica”: ogni stabilità e fissità lo spaventava. Era sempre altrove: sempre in fuga dai sistemi, specialmente da quelli in cui si attardava, sia pure per un istante. Il modo migliore di filosofare era, per lui, quello di parlare di sé stessi. Non gli importava ripetersi: diceva una cosa, la contraddiceva, la ripeteva, la contraddiceva di nuovo; ma quando diceva la medesima cosa per la centesima volta, essa sembrava nuovissima. Citava le stesse frasi: dalla Bibbia, da Platone, dai Vangeli, da Spinoza, da Dostoevskij, giungendo a conclusioni ogni volta diverse.
Pensava di essere “l’uomo della tragedia” ma era sopra tutto l’uomo dell’ironia; una ironia che negava in primo luogo sé stessa. Ora, angosciosamente, cercava Dio: ora solo il rischio e il pericolo – senza alcun punto di arrivo. Era chiaro ed oscuro: sempre insolito, audace, sfacciato: rifiutava le cosiddette leggi della saggezza; amava la distruzione, senza nessun desiderio di costruire. Gli interessava non ciò che uno scrittore diceva, ma
ciò che avrebbe potuto dire. Come Rochefoucauld, esaltava l’incostanza. Detestava i perché. Il dubbio era la sostanza della vita. La filosofia non doveva dare risposte, ma testimonianze. Pensare significava soffrire, tormentarsi: il contrario di ciò che aveva scritto Spinoza; «non ridere, non piangere, non detestare, ma comprendere ». Una volta disse che condivideva le parole di Amleto: “Il tempo è uscito dai suoi cardini”; ma non cercò mai di rimettere questi cardini al loro posto.
Gli scrittori supremi erano, per lui, i presocratici, Giobbe, Pascal, Kierkegaard e Dostoevskij: i suoi nemici Spinoza, Kant e specialmente Hegel. Di Tertulliano amò il Credo quia absurdum. La fede era una lotta folle per la possibilità; e per questo era così sublime. In Dio – soltanto in Dio – l’impossibile esiste. La libertà non è la possibilità di scegliere tra bene e male: ma la possibilità stessa. La fede combatte l’etica – la quale sevizia e tortura l’uomo: essa combatte la ragione, la legge, il dovere. Dio disubbidisce a qualsiasi principio. Niente esiste veramente: forse anche ciò che era accaduto avrebbe potuto non essere mai avvenuto.
Šestov scriveva per sbarazzarsi da i suoi pensieri e da sé stesso: per annullarsi, sebbene egli fingesse di continuare ad esistere. Desiderava portare all’estremo il veleno di una lucidità superiore ad ogni dubbio: in una condizione di discontinuità e instabilità; mai ortodosso, sempre caustico. Il pensiero era rischio, provocazione. Di certe cose era possibile scrivere solo indirettamente, come avevano fatto Pascal, Kierkegaard, Dostoevskij e Nietzsche. Specie negli ultimi anni, quando compose un bellissimo e divertentissimo libro, Kierkegaard e la filosofia esistenziale (Bompiani, a cura di Glauco Tiengo ed Enrico Macchetti, pagg. 760, euro 25) comprese che Kierkegaard era il suo doppio: il nuovissimo Giobbe.
Šestov pensava soltanto a Dio, anche quando non ne pronunciava il nome: secondo Albert Camus il suo Dio sembrava capriccioso, malvagio, immorale, inaccettabile e inaccessibile. Si, certo, era inaccettabile e inaccessibile. Non era, al contrario di ciò che aveva detto Plotino, l’Uno: né era ragionevole, illuminato, obbediente a una legge, sia pure stabilita da lui stesso. Anche Dio, a volte, correva rischi. Quando Cristo gli disse: «Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato?»; questo momento fu terribile per Dio, che fu sul punto di morire sulla croce. Come Pascal, Šestov pensava di non sapere nulla delle opere di Dio, se non partire dal principio che egli ha voluto accecarci ed ingannarci. Proprio per questo, Šestov parlava continuamente del peccato originale: l’uomo non aveva alcun bisogno del sapere; acquistando il sapere, perse la libertà. Non fu l’uomo, ma Dio ad aver colto ed assaggiato il frutto dell’albero. Come Kafka, Šestov rileggeva e reinterpretava senza fine i primi capitoli della Genesi. Si chiedeva: «Cosa sarebbe accaduto se Adamo non avesse peccato?». Anche oggi potremmo gustare il frutto dell’albero della vita: tutti i libri di Šestov inseguono questa possibilità; la libertà primigenia e paradossale, che Adamo aveva condiviso con Dio. Solo la fede permette di ripercorrere questa strada, ritrovando le piene luci o le piene tenebre. Quando diceva queste cose, Šestov si accordava con la mistica ebraica – che credo non conoscesse in modo diretto.
Fu molto meno tragico di Kierkegaard; e venne salvato dall’ironia e dall’indecisione. Kierkegaard aveva detto: «Ho guardato negli occhi il terribile e non ho avuto paura. Non ho tremato». Nemmeno Šestov tremò. Pascal aveva detto: «Gesù sarà in agonia sino alla fine del mondo: per tutto questo tempo non bisogna dormire». Šestov non dormiva a lungo sebbene qualche sonno o qualche sogno alleviassero la sua angoscia.
Šestov ebbe un solo allievo, un grande allievo: Benjamin Fondane, un ebreo rumeno (in realtà “Benjamin Wechsler”), il quale scrisse due bellissimi libri: Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (Aragno) e La coscienza infelice (Aragno). Ora Aragno raccoglie In dialogo con Lev Šestov. Conversazioni e carteggi, a cura di Luca Orlandini (pagg. 400, euro 25). Fondane era nato nel novembre 1898 in Moldavia. Andò nel 1919 a Bucarest, e nel 1923 a Parigi, dove conobbe Šestov; venne ucciso nel 1944 a Auschwitz-Birkenau. Fu molto amato da Cioran. Fondane non fece nulla, secondo Cioran, per sfuggire al disastro e al fallimento – che lo attraevano miracolosamente. «Mai prima – dice Cioran – avevo conosciuto un tale accordo tra l’apparire e il dire. Cercare era, per lui, molto più una necessità che un’ossessione. Cercare era una fatalità, la sua fatalità, percettibile dal modo di parlare, sopra tutto quando si entusiasmava oppure oscillava senza sosta tra l’ansia e l’ironia. Il suo pensiero si svolgeva in tutte le direzioni, continuamente in lotta contro la tirannia e la nullità delle evidenze, avido delle contraddizioni, spaventato di concludere».