Il femminismo in Turchia.

di Dimitri Bettoni

La Turchia è anche un paese dove i movimenti femministi hanno avuto un ruolo storico fondamentale e dove tutt’oggi costituiscono una delle parti più attive della società civile.

Çağla Diner e Şule Toktaş, rispettivamente sociologa e docente di scienze politiche dell’Università Kadir Has di Istanbul, suddividono la storia del movimento femminista turco in epoca repubblicana in tre fasi distinte. La prima è quella delle origini, del kemalismo agli albori della repubblica, che per le donne ha significato soprattutto rivendicazione dei diritti pubblici e politici. La seconda è consistita nella svolta degli anni Settanta e Ottanta, in un femminismo più radicale che non si limita più soltanto ai diritti pubblici, ma reclama anche quelli privati e attacca soprattutto il patriarcato radicato nella società turca. Infine gli anni Novanta e quelli successivi, della nascita del femminismo identitario, legato soprattutto ai movimenti curdi da un lato e a quelli islamici dall’altro.

Il movimento femminista curdo punta il dito sia contro lo sfruttamento sperimentato all’interno della società curda, patriarcale e tribale, sia contro l’autoritarismo centralizzante dello Stato turco.

La contestazione femminista in seno ai movimenti islamisti, impegnati a chiedere più libertà religiosa e il ridimensionamento della rigidità del secolarismo di Stato, cerca invece di conciliare le istanze femministe con i valori dell’islam. La lotta contro il divieto di indossare il velo nelle università diviene il principale cavallo di battaglia, ma non solo: le donne contestano l’abuso che la società maschile ha fatto del Corano, utilizzato per imporre il dominio sulla donna e confinarla nella sfera domestica e privata.

Entrambe le correnti criticano il femminismo turco di tradizione kemalista per il suo carattere etnocentrico e per avere ignorato sia la questione identitaria, sia i problemi di quelle donne che vivono nelle zone di conflitto del Paese, in particolare nel Sudest. Il femminismo turco, dominato da donne essenzialmente occidentalizzate, appartenenti alla classe media e al tessuto urbano, etnicamente turche e con accesso a un’educazione superiore, viene così sfidato da donne di origini periferiche e con uno status socioeconomico inferiore.

Va notato anche che la terza fase del femminismo turco vede l’emergere del ruolo delle organizzazioni internazionali e, più in generale, un’internazionalizzazione delle istanze femministe.

Indipendentemente dalle divisioni interne ai movimenti femministi turchi, l’8 marzo è per le donne anatoliche un giorno di mobilitazione, anche se spesso nel corso della storia ha affrontato momenti tumultuosi, compresi i giorni nostri, in cui le dimostrazioni sono state bandite dalle autorità o aggredite da gruppi di uomini inferociti. Anche le misure speciali dello stato di emergenza in vigore dopo il tentato golpe del 2016 sono state usate dai governatori di alcune province turche per impedire lo svolgimento dei cortei dell’8 marzo, quando le donne marciano da sole per reagire alla consuetudine patriarcale che vuole la donna sempre accompagnata da un uomo, e colorano le strade cittadine di viola.

Secondo il rapporto 2016 del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, che raccoglie dati da 188 nazioni, la Turchia è al 69° posto nella graduatoria della disparità di genere (Gender Inequality Index) e al 71° in quella dello sviluppo di genere (Gender Development Index).

WorldAtlas colloca la Turchia al 6° posto tra i Paesi OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) nella classifica della disuguaglianza salariale di genere: mentre un uomo turco guadagna in media 24.200 euro, una donna ne guadagna appena 7.500. Tra i vari fattori che sfavoriscono le donne è indicato il più basso livello di educazione a cui hanno mediamente accesso, che impedisce loro di raggiungere i posti di lavoro meglio retribuiti che restano appannaggio degli uomini.

Infine, secondo la classifica del Gender Gap 2017 stilata dal World Economic Forum, la Turchia si trova al 131° posto su 144 Paesi esaminati.

Se da un lato certi numeri, e soprattutto certe classificazioni, vanno presi con le pinze a causa delle scelte metodologiche che ne sono alla base, il sentore generale è quello di un Paese che ancora fatica a riconoscere alle donne un ruolo paritario rispetto agli uomini.

Ma quali sono le battaglie e le iniziative delle donne turche?

Uno dei temi centrali è quello della lotta alla violenza di genere, in particolare quella che si consuma tra le mura domestiche. Nel 1990 è stata fondata Mor Çati (Tetto viola), un progetto che mira principalmente a creare una rete di consultori per dare aiuto alle donne vittime di abusi. Il portale Bianet oggi dedica al tema un dossier costantemente aggiornato, denominato Monitoraggio della violenza maschile, con dettagliati report mensili che raccontano, ad esempio, come solo nei primi 6 mesi del 2018 siano state uccise 120 donne.

Un’altra battaglia storica è quella contro le spose bambine e i matrimoni forzati. Il Centro consultivo delle donne (Kamer) è attivo in 40 delle 81 province turche, soprattutto nel Sudest, dove la percentuale di matrimoni imposti, che coinvolgono anche bambine di meno di 12 anni, è calata da oltre il 50% a fine anni Novanta al 33-35% di oggi. Un sostanziale miglioramento che, al tempo stesso, indica quanto la strada da compiere sia ancora lunga.

La battaglia sui diritti religiosi sembra invece avere avuto successo con l’avvento di un governo di stampo marcatamente islamico conservatore come quello di Recep Tayyip Erdoğan. Oggi le donne possono entrare velate nelle università, negli ospedali, nei tribunali e in parlamento, diversamente da quanto accadde nel 1999 a Merve Kavakçi quando, eletta parlamentare, le fu impedito di prestare giuramento alla Repubblica a causa del velo indossato. Ma soltanto nel marzo 2018 una donna, la professoressa Huriye Martı, è riuscita a diventare vicepresidente del Direttorato per gli affari religiosi (Diyanet), il potente ministero fondato nel 1924. «Le donne musulmane continueranno a chiedere più diritti, che considerano garantiti da Dio, ma sottratti loro dall’interpretazione patriarcale dell’Islam» scrive in quei giorni la giornalista Riada Ašimović Akyol.

Quello dell’adulterio e della sua criminalizzazione è un altro tema destinato a restare rovente nel dibattito turco. Nel 2004 il primo governo Erdoğan depenalizzò il reato di adulterio, in ossequio a una sentenza costituzionale del 1996 che aveva dunque atteso 8 anni prima di veder nascere una legge con essa coerente, tra l’altro, con quelle che erano le indicazioni dell’Unione Europea nel quadro dei negoziati di adesione. Ma il 20 febbraio 2018 è lo stesso Erdoğan ad annunciare una retromarcia: «Facciamo autocritica, abbiamo sbagliato nel corso del processo UE. Dobbiamo riformulare una legge in tema di adulterio e magari riconsiderarlo unitamente al tema delle molestie. In questo la Turchia è diversa da molti Paesi occidentali». L’annuncio ha provocato indignazione in tutte le organizzazioni e i movimenti femministi e spinto molte donne in strada a protestare.

Ma le lotte femministe, oltre che in campo sociale, proseguono anche in quello economico, ad esempio con BizBizze, un’organizzazione che promuove l’attivismo economico al femminile in un Paese in cui «le donne rappresentano soltanto l’8% del mondo imprenditoriale e il 28% della forza lavoro». Fondata nel 2017, BizBizze si rivolge alle donne che vogliono migliorare la propria vita lavorativa e le proprie condizioni economiche e offre servizi di consulenza e sostegno all’avvio dell’impresa.

Anche nel giornalismo, uno dei temi più delicati nella Turchia di oggi, le donne cercano di ritagliarsi un ruolo di primo piano. L’agenzia stampa Jinha e il portale d’informazione Jin News sono iniziative giornalistiche multilingue (turco, curdo, inglese, arabo e zaza) gestite esclusivamente da donne. “Jin” significa infatti “donna” in lingua curda. Legate al movimentismo della sinistra curda, queste iniziative sono fortemente ostacolate dal governo centrale, che le accusa di collusione con il terrorismo. I portali sono bloccati in Turchia e non raggiungibili senza accorgimenti tecnici come i VPN (Virtual Private Network) per aggirare la censura, mentre diverse reporter sono tutt’oggi in carcere.

Donne Senza Confini (DSC) è invece un gruppo di solidarietà consolidatosi allo scopo di accrescere la consapevolezza attorno ai problemi affrontati dalle donne migranti. È priorità di DSC portare a galla la discriminazione e le violenze che le donne migranti affrontano nelle strade, sul luogo di lavoro, nelle istituzioni pubbliche e sviluppare politiche per affrontarle.

Anche il mondo dell’arte turco si mobilita al femminile con numerose iniziative. Una di queste è il Film Mor Festival, gestito dalla Cooperativa femminile Filmmor fondata nel 2001. Promuove il cinema per quelle donne che vogliono produrre, concorrere, recitare e sognare e per aumentare il coinvolgimento femminile nel mondo della pellicola. Film Mor è un festival annuale itinerante con un percorso che tocca numerosissime città della Turchia. L’edizione 2018 ha portato in dote 48 film locali e internazionali in moltissime lingue ed è sempre accompagnato da workshop, gruppi di discussione e mostre fotografiche.