Il dolore e il diritto al fine vita

Ma nel primo caso la vita della persona dipendeva dalla assistenza di strumenti che le assicuravano la respirazione artificiale, mentre nel secondo sembra che la assistenza medica al malato non richiedesse simili sostegni vitali. È probabile che, sia chi fonda la sua opinione su un semplice criterio di umanità, sia chi pensa che ciascuno debba essere libero di decidere su come e quando morire e sia chi invece assume che in nessun caso la vita sia disponibile, tutti, allo stesso modo, trovino che quella differenza non abbia peso e non tocchi i valori in campo. Ma proprio quella differenza è divenuta determinante dopo la sentenza dell’anno scorso della Corte costituzionale. Con quella sentenza la Corte ha inciso sulla portata della norma del codice penale che punisce gravemente chiunque, in qualsiasi modo, aiuti altri a mettere in atto il proprio suicidio. La Corte ha affermato che in sé il divieto di aiuto al suicidio è compatibile con la Costituzione, ma non deve essere punito chi fornisce aiuto ad una persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, che voglia porre fine alla propria vita essendo affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili e – questo è il punto che distingue i due casi- sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.

Oltre alla Corte costituzionale italiana sulla questione sono intervenute diverse altre Corti, nazionali ed europee. L’orientamento che esse hanno espresso è diverso. La Corte europea dei diritti umani – la cui giurisprudenza vincola tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa – afferma che la legittimità dell’aiuto fornito a chi abbia liberamente deciso di morire, si basa sul riconoscimento del diritto alla autodeterminazione nello scegliere quando e come morire. Secondo la Corte europea nel disciplinare la materia gli Stati godono di un margine di apprezzamento nazionale, fermo restando che l’autodeterminazione, aspetto della dignità della persona, riguarda il diritto al rispetto della vita personale, protetto dalla Convenzione europea dei diritti umani. La Corte costituzionale italiana, pur considerando il diritto alla autodeterminazione, ha ritenuto di ritagliare un’area di situazioni in cui ad essa di debba dar rilievo, rispettandola. Fuori di quelle situazioni essa finisce per non aver peso. La Corte, strettamente limitandosi al caso che aveva originato il suo esame di costituzionalità, ha definito le condizioni in cui deve trovarsi la persona che chiede aiuto al suicidio. Mentre la Corte europea ha ragionato a partire dal riconoscimento della autonomia della persona, cercando poi le ragioni che possono spingere a limitarne l’uso, la Corte costituzionale considera il diritto di rifiutare le cure e ritiene irragionevole consentire il rifiuto delle cure, anche quando ciò porti alla morte, e prevedere invece la punibilità di un intervento che venga richiesto, nella stessa situazione di fatto, per procurare la morte.

Rispetto all’argomentare della Corte costituzionale v’è da chiedersi se spetti allo Stato o alla società definire quando rispettare l’autonomia delle persone. Il fondamento del diritto (o, forse meglio, della libertà) di cui si tratta, comporta certo la possibilità di prevedere una regolamentazione, ma esclude un generale e incondizionato potere dello Stato di “ritagliare” l’area entro la quale l’autodeterminazione legittimamente si esprime. Rigorosamente rispettosa dell’autonomia della persona è stata invece la recente sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco. In ogni caso questioni di ragionevolezza si pongono proprio con riferimento alle quattro condizioni poste dalla Corte costituzionale, particolarmente per quella che richiede l’uso attuale di mezzi di sostegno vitale. Una persona, che può certo rifiutare tali trattamenti, dovrebbe accettarli per poi poter chiedere aiuto al suicidio? E perché escludere in radice il caso di chi non sia malato o non lo sia ancora gravemente, né sia fisicamente impedito a suicidarsi, ma voglia evitare mezzi traumatici ed anche insicuri rispetto all’esito? Questa ed altre domande segnalano la difficoltà di circoscrivere analiticamente l’area di non punibilità delle condotte di aiuto al suicidio: difficoltà che aprono la via ad ulteriori questioni di costituzionalità aventi ad oggetto la norma del codice penale proprio per come l’ha ridefinita la Corte costituzionale.

La discussione sulle condizioni della persona che chiede aiuto per il proprio suicidio, oltre a condurre sul terreno improprio della delimitazione della libertà della persona, distoglie l’attenzione dal cuore del problema: la volontà di metter fine alla propria vita. Né nella legge vigente, né nella sentenza della Corte costituzionale la questione è adeguatamente affrontata. Eppure si tratta del problema centrale. Quando e come una persona decide “liberamente” di uccidersi o di farsi aiutare a morire? Come la società e lo Stato possono seriamente offrire alternative, per superare non solo il dolore fisico (le cure palliative, le terapie antidolore), ma anche le difficoltà personali o sociali? Questo è il terreno su cui lavorare alla ricerca di difficili, ma indispensabili risposte. Non quello di definizioni astratte di casi e condizioni, fuori dei quali chi ha deciso di uccidersi, se può farlo da solo, può solo ricorrere a mezzi violenti e avvilenti.

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