È ormai quasi una certezza, dopo qualche mese di contraddittoria incubazione, la rapida decadenza di quell’intreccio fra verticalizzazione e personalizzazione della politica che ha caratterizzato da quasi venticinque anni la vita pubblica italiana: un intreccio che ha purtroppo dato origine anche a qualche tentazione di protagonismo personale. È proprio tale protagonismo che oggi entra in sostanziale declino, nella costituzione del declinante carisma di alcuni politici con forte vocazione al primato personale, da Renzi a Grillo, a Salvini; ma non dimenticando peraltro che tutta la Seconda Repubblica ha consumato (e talvolta sotterrato) fior di protagonisti della personalizzazione della politica, da Segni a Occhetto, da Bossi a Bersani, da D’Alema a Monti; e per certi versi anche Berlusconi e Prodi, due leader ancora in campo, ma consapevoli di non poter più dominare la dinamica politica. C’è, in altre parole, un sovrapporsi «in calando» di storie personali, di vicende istituzionali, di delusioni collettive sulla verticalizzazione e la personalizzazione della politica. Molti amano pensare che tale generalizzato declino sia dovuto ad una oggettiva povertà culturale di quella galleria di personaggi che per anni hanno cavalcato il citato intreccio. Va però detto che essi hanno sì commesso vari errori personali, ma la loro colpa più grave è stata quella di non aver capito che sul medio periodo la personalizzazione della politica sbatte, dopo gli iniziali entusiasmi carismatici, contro due difficoltà radicali.
In primo luogo, sbatte contro una società i cui complessi problemi mal si prestano ad essere governati con cultura e decisioni di vertice, solo che si pensi alla totale orizzontalità delle due maggiori questioni del momento: i flussi migratori e i processi di crescita dell’export. In fondo, l’ultima grande operazione di vertice l’abbiamo fatta con il governo Monti per contrastare l’impennata dello spread; poi siamo tornati a fare i conti con una società liquida o molecolare, che vive – e va governata – con dinamiche tutte orizzontali.
Ma c’è una seconda radicale difficoltà per coloro che verticalizzano e personalizzano i processi politici, e sta nella loro quasi coatta propensione a spostare sempre più in alto la propria soglia di responsabilità, inavvertitamente spostandosi verso la propensione alla centralità dell’impegno mediatico. Così si rischia di passare dal fuoco del decisionismo al fumo delle battaglie d’opinione, con sempre più scarsi spazi di decisionalità (si pensi solo a quanta poca concretezza sia stata applicata ad una tematica drammatica come la legalità, sommersa in decine di eventi mediatici, interviste, saggi, convegni, treni, navi della legalità, ecc.).
Se la politica ai livelli alti diventa protagonismo mediatico, si può convenire che ha stancato e non se ne sente il bisogno. Ma non è detto che l’avvicinarsi della campagna elettorale non riapra la lista di politici che, tramite un po’ di protagonismo mediatico, aspirino a diventare leader di vertice.
Giuseppe De Rita