GIOVANNA VITALE
ROMA.
Scrivono i revisori: «Le risultanze esposte in bilancio non rappresentano in modo veritiero e corretto la reale consistenza economico, patrimoniale e finanziaria del Gruppo Amministrazione pubblica di Roma Capitale». Detto in soldoni: nel consolidato varato dalla giunta Raggi — e previsto dalla legge per pareggiare tutte le partite creditorie e debitorie delle partecipate, fra loro e verso il Comune — i conti non tornano. Nella triangolazione tra il Campidoglio e le due controllate Ama (rifiuti) e Atac (trasporti), non si riesce a capire il dare e l’avere, spesso non è neppure specificato chi deve cosa e a chi, se a certi ricavi delle aziende corrispondano poi altrettanti costi per la controllante. E viceversa.
Un guazzabuglio. Ma, incredibile a dirsi, a rilevarlo per primo non è stato l’Oref, attaccato a testa bassa dalla maggioranza grillina, bensì lo stesso Ragioniere generale di Palazzo Senatorio, dalla medesima maggioranza nominato. È stato proprio Luigi Botteghi, arrivato a maggio in comando da Rimini, a scrivere non più di una settimana fa: «In considerazione del disallineamento dei dati fra Roma Capitale e le società facenti parte del perimetro di consolidamento», il parere (obbligatorio) che si esprime è sì «favorevole », ma «condizionato in ordine alla regolarità contabile della proposta di deliberazione in oggetto». Anche l’organo di controllo interno si era accorto che le cifre non combaciavano.
Nella migliore delle ipotesi perché la giunta Raggi non è stata in grado di venirne a capo, anche alla luce dell’enorme complessità dell’amministrazione capitolina: basti pensare che l’ultimo previsionale licenziato vale da solo 5 miliardi e 300 milioni, quasi quanto una “manovrina” nazionale. Nella peggiore, come peraltro ventilato dalle opposizioni, per una precisa volontà di nascondere eventuali buchi in bilancio che potrebbero mettere in serio pericolo la solidità finanziaria del Campidoglio. Aprendo per di più inquietanti spiragli per azioni di responsabilità, penale e contabile, a carico degli amministratori.
D’altro canto, che poco o nulla torni nei conti dell’Urbe, è un grande classico. Fin da quando, nel 2008, l’allora sindaco Gianni Alemanno gridò al dissesto ereditato, strappando al governo berlusconiano una norma ad hoc per commissariare il debito pregresso della città eterna (lievitato fin’oltre i 20 miliardi e ora sceso intorno ai 10), così da ritrovarsi senza un euro di passivo. Non servì a nulla. La spesa corrente tornò a correre fino a creare, appena cinque anni dopo, una nuova voragine: 867 milioni di “sbilancio”, che un’altra volta il governo (stavolta Letta) corse a correggere, imponendo nel 2014 un piano di rientro lacrime e sangue.
Ora, con la seconda bocciatura decretata dall’Oref in appena nove mesi, sembra che ci risiamo. «Sulla base di dati e numeri abbiamo costatato che c’è quanto meno un saldo di circa 300 milioni di euro che non si sa a chi imputare », ha spiegato ieri in Aula Giulio Cesare il revisore Marco Raponi. «Si tratta tutte quelle poste che non si sa se debbano essere imputate a una partita o a un’altra, o se siano reali».
Un discorso che deve aver convinto (e preoccupato) la stessa maggioranza grillina. Con l’emendamento scritto a mano e depositato al volo prima del varo del consolidato, i consiglieri cinquestelle hanno infatti disposto «di procedere, entro e non oltre il termine dell’esercizio finanziario in corso», dunque entro il 31 dicembre di quest’anno, «a porre in atto i provvedimenti necessari ai fini della riconciliazione delle partite debitorie e creditorie delle partecipate Ama e Atac». Una correzione last minute per evitare guai, evidentemente. Perché i conti, alla fine, non sono tornati neppure a loro.