Gianfranco Ravasi
«Il tempo raffredda, il tempo chiarifica»: così Thomas Mann nella Montagna incantata. E aveva ragione perché il fluire della storia ridimensiona o rettifica i giudizi dei contemporanei oppure li conferma, li esalta o semplicemente li smentisce. Questo è il valore della commemorazione degli anniversari, una prassi talora scontata e obbligatoria, altre volte necessaria appunto per «raffreddare» (e alla fine smitizzare), oppure «chiarificare», ossia riportare in luce un deposito di idee, forse celate sotto il velo della cenere dell’oblio. Ritagliamo, allora, uno spazio per tentare proprio questa operazione di «raffreddamento» o «chiarificazione» di alcune tesi teologiche, appunto sulla base della scansione temporale.
A quanto ho potuto vagliare, il 2020 è segnato da alcuni cinquantenari significativi. Tre meritano di essere «chiarificati» come eventi significativi da rilanciare per renderli di nuovo chiari e brillanti. Si tratta di autori che si sono collocati sullo spartiacque tra teologia e filosofia e cultura generale. Penso innanzitutto a un collega di Marcuse nella Scuola di Francoforte, Max Horkheimer: nel 1970 usciva quell’intervista che nel titolo avrebbe creato un vero e proprio stereotipo ancor oggi comunemente adottato, La nostalgia del totalmente Altro. Siamo quasi alle soglie della sua morte, che avverrà tre anni dopo e il pensatore ha da tempo tagliato i ponti con un iniziale marxismo e si è affacciato sempre più sull’orizzonte della religione e del discorso teologico.
Decide, così, di scendere esplicitamente in quel terreno insidioso ma anche attraente. E lentamente si alza davanti a lui, agnostico, un volto divino, «totalmente Altro», rispetto alla speculazione tradizionale, aggrappata all’immagine del Dio buono, giusto, onnipotente e rassicurante. È, invece, il Dio della trascendenza «i cui pensieri non sono i nostri pensieri e le nostre vie non sono le sue», come proclamava il profeta Isaia (55,8). Eppure soltanto lungo i suoi percorsi alti e sconcertanti si riesce a scoprire un senso alla storia dell’esistenza umana. Egli è contemporaneamente proiezione verso il futuro e, così, infonde speranza (qui forse in Horkheimer pulsa un po’ il cuore di Bloch), ma è anche nostalgia, cioè tensione verso il paradiso perduto prototipico.
La difesa della ragione teologica, purificata, è così forte nel filosofo tedesco che in finale a quell’«intervista» sfocerà in un paradosso folgorante: nella cultura contemporanea «la dimensione teologica sarà soppressa. Ma con essa scomparirà dal mondo ciò che noi chiamiamo senso». L’esito sarà un’umanità sbandata, senza stella polare, che si avvoltola nella polvere della banalità, nel più bieco immanente, nella povertà etica, incapace di levare lo sguardo verso quel «totalmente Altro» che indicherebbe un «senso» vero al mero esistere umano. Questa nostra «chiarificazione» molto semplificata della riflessione del pensatore di Stoccarda (ove era nato nel 1895) merita un’appendice contestuale. A minare la concezione teologica tradizionale in quegli anni era stato l’orrore dell’olocausto nazista e quindi il «pensare Dio dopo Auschwitz» e dopo quel suo scandaloso «silenzio».
Ricordiamo, allora, che il 1970 è anche l’anno di pubblicazione di un famoso saggio proprio su questa sfida: è L’esilio della Parola di André Neher, uno studioso ebreo nato in Alsazia nel 1913, docente a Strasburgo, morto nel 1988. La sua fluviale ricerca (4 volumi!) su Yehudah Löw ben Bezalel, il rabbino moravo cinquecentesco operante a Praga come talmudista, giurista, moralista e persino matematico, veniva intervallata dagli interrogativi più stremanti per un credente ebreo. Se la leggenda voleva che Yehudah Löw fosse stato il creatore del Golem, l’homunculus faustiano, figura d’argilla in cui il rabbino avrebbe insufflato un alito di vita facendone un essere vivente, col nazismo emergeva ben più reale un mostro umano che avrebbe destrutturato non solo l’antropologia ma anche la teologia. Neher è, allora, il testimone che convochiamo come seconda voce da far di nuovo echeggiare, purtroppo ancor oggi necessaria.
A questo punto, cercando di perlustrare un cono d’ombra parallelo, quello del razzismo ugualmente vicino a noi, introduciamo un terzo cinquantenario legato alla pubblicazione nel 1970 del saggio Una teologia nera della liberazione del teologo afroamericano James Cone. Da un lato, riguardo a questa e alle altre opere fiorite attorno alla black theology, bisogna applicare forse un po’ di «raffreddamento», per ricorrere alla metafora di Mann. Si tratta, infatti, di testi frementi, talora emotivi e fin predicatori, considerata la temperie di allora (pensiamo a Martin Luther King o al «Black Power»), non sempre disponibili a un’elaborazione sistematica pacata, sotto lo sdegno giustificato per l’infamia della segregazione razziale.
D’altro lato, però, il valore del «manifesto» di Cone e di altri teologi neri sta proprio nell’urgenza vitale del loro pensiero che non è di genesi «africana» ma è innestato nella società razzista americana di quegli anni (vergogna per altro mai spenta, come attestano i rigurgiti dei nostri giorni). Anzi, potremmo quasi immaginare una sorta di «fiore» che in quel periodo storico sboccia dal «male» con tanti petali diversi: la povertà e l’oppressione in America Latina e la relativa teologia della liberazione, il sessismo maschilista e la conseguente teologia femminista, la citata riflessione riguardo al «Dio dopo Auschwitz», l’apartheid in Sudafrica e la testimonianza di Desmond Tutu e Allan Boesak, e così via.
Affermare che Dio è nero, come lo è Cristo, per Cone non è una questione etnico-cromatica, bensì è la certezza che la divinità assume in sé lo status degli emarginati e degli oppressi, schierandosi dalla loro parte, immergendosi nel degrado dei loro bassifondi e chinandosi sulle loro ferite per condurre tutte le vittime alla risurrezione. È, quindi, una conseguenza necessaria dell’Incarnazione in cui Dio attraverso Cristo entra nella storia umana al livello più basso (la «condizione di schiavo» di cui parla san Paolo) per redimerla. Pur avendo corollari sociali, questa visione non è politica ma piuttosto partecipa dell’afflato degli spirituals o dei gospels, i generi melodici afroamericani resi popolari, ad esempio, da Mahalia Jackson o Rosetta Tharpe, penetrati anche nei blues e nel jazz. Come dichiarerà Cone (il cui fratello Cecil sarà un altro interprete della stessa teologia «nera»), il razzismo è la più perniciosa «eresia» della società bianca, e questa sua convinzione conserva purtroppo, a distanza di mezzo secolo, tutta la sua perniciosa attualità.
La nostalgia del totalmente Altro
Max Horkheimer
Queriniana, Brescia, pagg. 136, € 13
L’esilio della Parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz
André Neher
Medusa Edizioni, Milano,
pagg. 254, € 18
Teologia nera della liberazione e Black Power
James Cone
Claudiana, Torino, pagg. 224, € 14