L’agenda libica continua a essere tra le priorità della politica estera di Roma. Negli ultimi due mesi, infatti, le autorità italiane hanno spesso fatto la spola con Tripoli: lo scorso giugno il ministro dell’interno Matteo Salvini ha incontrato il vice premier libico Ahmed Maitig, seguito a pochi giorni di distanza dal ministro degli Esteri Moavero Milanesi e da quello della Difesa Elisabetta Trenta. Anche Maitig, il vero uomo forte di Tripoli, si è recato in visita a Roma, per “ricambiare il favore”, ma soprattutto per assicurarsi gli aiuti promessi dall’Italia per la guardia costiera libica: dodici motovedette, addestramento e formazione, con l’obiettivo di incrementare la capacità operativa degli organi per la sicurezza costiera e del ministero dell’Interno libico nelle attività di controllo e di sicurezza, rivolte al contrasto all’immigrazione illegale e al traffico di esseri umani.
La strategia del nuovo governo italiano può essere considerata, per certi versi, in continuità con quella del precedente: sostenere il “governo” riconosciuto dalla comunità internazionale per delegare alle autorità libiche la gestione della rotta del Mediterraneo centrale. L’Italia, però, sembra voler andare oltre il semplice dossier migratorio per riaprire a una partnership bilaterale rafforzata con l’ex Jamahiriya anche in ambito economico, per recuperare il rapporto strategico interrotto dall’intervento internazionale a marchio francese nel 2011. Salvini, infatti, già durante la visita nella capitale libica, aveva prospettato la riattivazione del trattato di amicizia e cooperazione tra i due Paesi siglato, nella sua versione “originaria”, da Gheddafi e Berlusconi nel 2008.
Per capire se la strada percorsa dall’Italia è quella giusta sono necessarie alcune considerazioni.
In primo luogo va sottolineato che il problema della gestione dei flussi migratori non può essere svincolato dalla stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza interno. Detta in altre parole, la Libia non può essere considerata la soluzione del problema perché è essa stessa parte del problema. Per questo motivo il “dossier Libia” deve tornare in cima all’agenda internazionale, il che presuppone che nessuno Stato ha il diritto di prendere decisioni unilaterali sul futuro del Paese. Come sottolineato di recente dal rappresentante speciale del segretario generale dell’ONU per la Libia, Ghassan Salamé, «lo status quo libico non può più essere mantenuto». Un’affermazione che mette una pietra tombale sull’iniziativa dello scorso 29 maggio del presidente francese Emmanuel Macron – che aveva proposto una “personalissima” road map con elezioni entro fine dicembre –, ma soprattutto che è un monito ad evitare pericolose iniziative unilaterali. Il percorso di pacificazione deve partire da un dialogo inclusivo tra gli attori locali, supportato dagli organismi internazionali. Da questo punto di vista l’Italia può fare valere il rapporto privilegiato con Tripoli per porsi quale interlocutore indispensabile, anche per mediare un accordo con gli attori dell’Est e i loro “sponsor”, Russia e Francia in primis. In un contesto così delineato anche la riattivazione del “Trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione” può risultare di grande utilità. Al di là delle disquisizioni giuridiche sulla sua validità, vista la partecipazione italiana all’intervento contro Gheddafi, va rimarcato che se da un punto di vista sostanziale è difficilmente applicabile nella sua interezza, a causa dell’assenza di un chiaro potere centrale in Libia, potrebbe comunque essere aggiornato alla rinnovata realtà, magari “riabilitandone” alcune clausole. Sarebbe un passo importante anche per promuovere azioni diplomatiche finalizzate a spingere le autorità libiche ad adeguarsi agli standard internazionali in tema di diritti umani e a combattere più energicamente i network criminali che operano nel proprio territorio. Viceversa, qualunque ipotesi di collaborazione rischia di essere un fallimento.
C’è poi un altro problema che l’Italia deve tenere in considerazione. Le organizzazioni criminali libiche, di cui tanto si parla negli ultimi mesi, sono l’ultimo anello di una catena decisamente più articolata che parte dall’Africa occidentale e orientale ma anche da altri Stati del Nord Africa. L’indifferenza fin qui mostrata dai Paesi europei, troppo concentrati nel guardare al problema migratorio nel loro cortile di casa e non dove esso ha davvero origine, ha favorito lo sviluppo di reti criminali di carattere transnazionale, lasciando nelle mani dei trafficanti il potere di gestire i flussi migratori. Davanti a questo scenario la soluzione proposta dal premier italiano Giuseppe Conte nell’ultimo vertice europeo – rafforzare le frontiere esterne e stipulare accordi con i Paesi terzi per creare centri di protezione internazionale nei luoghi di partenza e di transito – potrebbe non essere sufficiente. Sarebbe più utile mettere in cima a una reale agenda europea un’azione congiunta di lotta alla criminalità organizzata transnazionale. Uno step indispensabile per far fronte al problema migratorio che l’Italia, evidentemente, non può affrontare da sola.
Il nuovo governo, dunque, ha molte carte da giocare per tentare di assurgere a un ruolo di primo piano nel futuro del Paese nordafricano e per sviluppare una propria politica per la Libia e più in generale per l’Africa. Tuttavia, per pacificare uno Stato oramai allo sbando e per risolvere in maniera concreta l’emergenza migratoria servirà uno sforzo molto più incisivo che non potrà prescindere dal coinvolgimento della comunità internazionale, ma non dovrà neppure continuare a vedere l’Italia subordinata alle politiche estere di alcuni Paesi che negli ultimi anni hanno tentato di piegare l’agenda europea ai propri interessi nazionali.