L’INCUBO GRECO
C’è un preoccupante parallelismo tra i recenti sviluppi economici e politici in Italia e quelli verificatisi in Grecia nel 2014e 2015. Continua pagina 10 Dopo una profonda e dolorosa recessione, nel 2014 l’economia greca era entrata in una fase di ripresa guidata dalle esportazionie dagli investimenti, che nelle attese avrebbe dovuto accelerare nel 2015: prima delle elezioni vinte da Syriza, la Commissione Ue prevedeva che nel 2015 gli investimenti sarebbero cresciuti dell’8% del prodotto interno lordo (Pil). La competitività del costo del lavoro era aumentata del 23% tra il 2009 e 2014, e il tasso di disoccupazione era diminuito nel 2014, specie tra i giovani. Questi sintomi di ripresa furono compromessi dalla crisi politica e finanziaria seguita alle elezioni di gennaio 2015. Tra aprile 2014 e gennaio 2015, l’indice della fiducia degli investitori sulla Grecia piombò da 104 a 95, lo spread tra il tasso di interesse sui titoli del debito pubblico greco e i Bund (i titoli di Stato tedeschi) a 10 anni, che all’inizio di dicembre 2014 era al 7%, salì all’11%. Tra novembre 2014 e febbraio 2015, famiglie e imprese ritirarono dalle banche 25 miliardi euro, cioè il 15% dei propri depositi, in previsione di una possibile uscita della Grecia dall’area dell’euro. Le banche, a corto di liquidità, dovettero nuovamente chiedere a prestito liquidità alla Banca centrale europea (Bce), invertendo il processo di progressiva riduzione della loro dipendenza dalla Bce iniziato dopo le elezioni del giugno 2012. Questa turbolenza finanziaria si ripercosse rapidamente sull’economia reale, arrestando la ripresae facendo piombare il Paese nuovamente nella recessione. Di conseguenza anche il gettito fiscale si ridusse, cosicché lo Stato greco esaurì le sue fonti di finanziamento a breve terminee al tempo stesso non riuscì piùa collocare nuove emissioni di debito. L’esito finaleè noto: l’insolvenza dello Stato greco nel 2015 nei confronti dell’Fmi, le estenuanti trattative con i creditori per rinegoziare il debito e infine il terzo salvataggio della Grecia. Come in Grecia nel 2014-15, anche oggi in Italia l’onda lunga del malcontento dovuto alla crisi e alle politiche di moderazione fiscale potrebbe generare un contraccolpo proprio quando quelle politiche stanno finalmente cominciando a portare frutto. Lo shock fiscale previsto dal “contratto” tra M5S e Lega – un aumento del deficit pubblico stimato da Roberto Perotti in 169 miliardi di euro, circa il 10% del Pil (la Repubblica, 19 maggio 2018) – sarebbe tanto più dannoso in quanto, oltre a compromettere i risultati faticosamente acquisiti, rischia di offuscare le prospettive di crescita dell’Italia, con aumenti dei tassi di interesse, peggioramento dei conti dello Stato, fuga dei capitali verso porti più sicuri, e quindi recessione, così come accaduto in Grecia nel 2015-16. E a farne le spese sarebbero probabilmente soprattutto gli strati sociali che M5Se Lega vorrebbero difendere, che sono quelli più esposti a una recessione. Si dirà: ma l’Italia non è certo la Grecia! Ha un rapporto minore tra debito pubblico e prodotto interno lordo, un sistema bancario complessivamente più solido, un sistema produttivo molto più robusto, una maggior capacità di esportazione. Tutto vero. Ma non dimentichiamo che nella crisi finanziaria del 2011-12 lo Stato italiano siè trovatoa un passo dal perdere l’accesso ai mercati finanziari, e se non fosse stato per l’intervento della Bce lo avrebbe probabilmente perso.E anche se molto è stato fatto negli ultimi anni per migliorare la tenuta del sistema bancario nella zona euro, niente impedisce che il circolo vizioso tra crisi fiscalee crisi delle banche si riavvii, sotto l’impulso di una politica di forte e persistente espansione della spesa pubblica finanziata dal debito in Italia: non dimentichiamo che il nostro Paese ha già un rapporto debito/Pil pari al 132%, e che una politica come quella proposta nel “contratto” MS5-Lega potrebbe facilmente portarlo su un sentiero insostenibile. In questo caso gli investitori giocherebbero d’anticipo, chiedendo tassi d’interesse più alti, come già osserviamo in questi giorni al solo annuncio di queste possibili politiche! Ciò ovviamente aumenterebbe le spese per interessi, aggravando ulteriormente il deficit pubblico e l’insostenibilità del debito. Che l’Italia non sia la Grecia è vero anche in un altro senso: l’Italia è la terza economia dell’area euro, le sue banche e compagnie di assicurazioni sono profondamente integrate nel sistema finanziario europeo, il suo debito pubblico è detenuto in misura rilevante da banche e compagnie di assicurazioni degli altri Paesi dell’area euro. Questo vuol dire che una crisi fiscale italiana avrebbe ripercussioni destabilizzanti su tutto il sistema finanziario europeo. Un’insolvenza da parte dello Stato italiano avrebbe conseguenze sistemiche enormemente maggiori dell’insolvenza da parte della Grecia nel 2015. Si dirà: e la Bce? Ci ha salvato una volta, ci salverà di nuovo. Questo sarebbe un tragico errore, per due ragioni. Primo, la Bce sta già avviando un programma di rientro dalla politica di acquisti di debito pubblico e aumento della massa monetaria. Si tratta di una politica programmata da tempo, anche se calibrata con grande cautela per non destabilizzare i mercati. Secondo, non si vede come la Bce potrebbe invertire la rotta per salvare uno Statoi cui futuri governanti hanno già adombrato la “richiesta” che la Bce azzeri il valore dei titoli di Stato italiani che ha acquistato in passato, pur essendosi poi guardati bene dall’inserirla nel proprio programma di governo. La Bce ha un mandato preciso che vieta il finanziamento monetario dei deficit pubblici e una credibilità da salvaguardare nei confronti di tutti gli Stati membri dell’area dell’euro. Il tema della credibilità ci riporta al governo del nostro Paese. La credibilitàè un bene difficile da acquistaree facile da perdere.E in questi giorni, l’Italia ha già perso credibilità di fronte ai risparmiatori e ai governanti di tutta l’Europa, come si vede dall’andamento dello spread dei Btp rispetto ai Bund, e da quello del mercato azionario italiano rispetto a quello europeo. Questa è una perdita per tutto il Paese, perché si traduce in un maggior onere del debito pubblico (e quindi più tasse in futuro) e in tassi di interesse più elevati per le famiglie e imprese italiane. È anche una perdita che non sarà facile recuperare. Speriamo che non si aggravi.