Dispositivo che tiene insieme episodi visivi, materici e culturali non contigui, assoggettandoli e rimodellandoli. Mostro insaziabile, che cerca di ingoiare tutto ciò che trova. Il museo non esiste da sempre. È un’istituzione piuttosto giovane: tra le più ambiziose invenzioni della modernità. Ha poco più di duecento anni; e la sua espansione a livello planetario è ancora più recente. Si tratta di una formazione storica che, nel tempo, è cambiata tante volte. Ha indossato molte maschere. Ha sfidato sé stesso e si è tradito, arrivando a mettere in discussione i propri fondamenti. Nulla garantisce che, tra cento anni, questo essere mutante esisterà ancora. Forse, perderà vitalità e senso.
Intanto, da diversi decenni, stiamo assistendo al trionfo di una sorta di museo-mania. Ovunque continuano a nascere musei. Che favoriscono il rilancio culturale e turistico di intere aree (si pensi al caso Guggenheim a Bilbao). Attraggono un numero crescente di visitatori. Inoltre, sovente, accolgono nelle proprie collezioni anche varie forme d’arte applicata (dal design alla moda) e si dotano di nuove professionalità. Non di rado vengono sfruttati, non senza una certa disinvoltura, per operazioni d’immagine (aziendale o politica). Infine, non si dimentichino le forme di musealizzazione cui sono sottoposte alcune città (da Firenze a Venezia).
Oggi, l’emergenza Covid sembra avere costretto i musei a rimodulare radicalmente la propria filosofia, i propri paradigmi. Di queste necessità discutiamo con Alberto Garlandini, museologo, da anni ai vertici di Icom (International Council of Museums). Dapprima presidente della sezione italiana, poi membro dell’Executive Board e vicepresidente, dallo scorso 20 giugno presidente di questa organizzazione: il primo italiano a ricoprire questo prestigioso incarico. «La Lettura» lo ha incontrato pochi giorni prima della sua elezione.
Muoviamo proprio da Icom. Come definirebbe questa organizzazione non governativa fondata nel 1946, che oggi conta 49 mila membri di 142 Paesi?
«Articolata in Comitati nazionali e internazionali, Alleanze regionali e Organizzazioni affiliate, Icom stabilisce standard professionali come il Codice etico per i musei, sviluppa attività di formazione e di scambio tra esperienze, combatte il traffico illecito dei beni, protegge il patrimonio materiale e immateriale, difende gli interessi dei musei e sostiene il loro ruolo presso i governi internazionali. Oltre a migliaia di eventi in ogni parte del mondo, ogni tre anni promuove la Conferenza generale, che riunisce migliaia di professionisti di tutti i Paesi. Il prossimo appuntamento è fissato a Praga nel 2022, quando scadrà il mio mandato».
Negli anni, come è cambiata la «mission» di Icom?
«Un passaggio fondamentale risale al 2015, quando l’Unesco ha riconosciuto il ruolo sociale del museo. Icom difende questa idea. Il museo come hub interculturale: protagonista nella società e, insieme, al servizio della società stessa».
Veniamo all’emergenza che stiamo attraversando. A lungo, i musei hanno utilizzato il web e i social soprattutto come vetrine dove postare mostre ed eventi. Il coronavirus li ha obbligati a ridefinire i propri palinsesti comunicativi. A tali scenari l’Unesco e Icom hanno dedicato un documento, «Museums Around the World in the Face of Covid-19», che fotografa una crisi drammatica (taglio del personale, riduzione delle attività, rischi di chiusure definitive) e individua alcune «best practices». E ora?
«Nella fase della pandemia, c’è stata un’esplosione di iniziative virtuali, digitali, online. Per i musei, questi erano gli unici strumenti per entrare in contatto con il pubblico. Negli scorsi anni, il web e i social erano concepiti solo come mezzi funzionali, per informare i visitatori sulle collezioni e sulle mostre. Oggi abbiamo capito che la comunicazione sulla rete e sui social ha una propria indipendenza; e può anche prescindere dall’incontro fisico con le opere. Una cesura storica».
Costretti a ripensare le proprie strategie, adesso i musei dovranno provare a saldare esperienza online ed esperienza offline. Perciò, saranno chiamati a investire competenze, tempo ed energia, per sviluppare ulteriormente le opportunità della rete, con piattaforme, siti e social di apparati ipertestuali, app, videogame e sperimentazioni legate al virtuale e alla realtà aumentata.
«I musei dovranno utilizzare tutti i media a disposizione per comunicare e per parlare a pubblici diversi: non esiste più il pubblico, ci sono tanti pubblici eterogenei, che dobbiamo imparare ad ascoltare».
Forse, i prossimi mesi costringeranno i musei ad affrontare una sfida difficile. Uscire dalle proprie pareti, per promuovere progetti e mostre negli spazi delle città, disseminandovi opere e installazioni simili a inciampi visivi.
«Secondo le indagini di Icom, durante il Covid-19 il 95% dei musei è stato chiuso; il 30% teme di non poter mantenere in servizio tutto il personale; il 13% rischia di non riaprire. Anche per reagire a questi scenari, i musei dovranno uscire da sé stessi, interagendo con le comunità. Quelle comunità che li hanno fondati, li alimentano, li fanno vivere».
Il museo aspira a farsi «agorà», piazza, e va verso la «polis», la città.
«I musei hanno il potere di proiettare la memoria nel presente e verso il futuro. Ma possono essere anche luoghi di comunicazione sociale, dove le comunità si incontrano per discutere dei propri problemi e per affrontare anche questioni dolorose. Sono palestre che possono aiutare a costruire le identità civiche».
I musei hanno una precisa funzione civile, politica. La loro vera «redditività» sta non tanto nella commercializzazione del patrimonio in essi custodito né nell’indotto generato, ma nella capacità di far circolare valori simbolici alti, potenziando senso di appartenenza e di cittadinanza e stimolando la creatività delle generazioni presenti e future, in dialogo con la memoria.
«Il museo non può essere un mezzo per soddisfare le richieste effimere dei turisti. Ma deve far sì che i cittadini diventino più consapevoli di sé e della storia da cui provengono».
Il post Covid-19 porterà i musei a ridisegnare anche le proprie politiche delle mostre. Non è difficile prevedere che il numero delle esposizioni diminuirà drasticamente. Forse, resteranno solo quelle necessarie.
«Prepariamoci a una stagione diversa. Si organizzeranno meno mostre, che saranno curate con maggiore attenzione, serietà, rigore scientifico. Vorrei che fossero mostre innovative, in grado di offrire nuove chiavi interpretative. Per tutti, non solo per gli specialisti. Mi auguro che, in Italia, non continueremo a importare esposizioni ripetitive, ma inizieremo a produrne di originali. Senza dimenticare mai, però, i percorsi affidati al web e al virtuale».
Infine, vorrei fare un piccolo gioco. Ritorniamo alla definizione di «museo» offerta da Icom: «Un museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. È aperto al pubblico e compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell’umanità e del suo ambiente: le acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto, le espone a fini di studio, educazione e diletto».
«Non si tratta di una definizione accademica, con valore normativo. Non è una legge, ma una soft law, in cui è racchiuso il codice etico cui Icom invita ad attenersi, per difendere l’interesse dei musei su scala mondiale».
Dunque, il museo come istituzione permanente.
«Il museo non come realtà effimera, ma come istituzione che custodisce un patrimonio storico-artistico e ha l’ambizione di durare nel tempo, rinnovandosi ininterrottamente: in modo permanente, appunto. In ascolto della realtà socio-antropologica e culturale».
Il museo opera senza scopo di lucro. Tornano alla mente le parole di Jonathan Franzen, secondo il quale i musei dovrebbero rappresentare «quel genere di spazio pubblico dove è bandito il consumismo sfacciato».
«I musei sono una forma di servizio pubblico non profit. Svolgono iniziative che hanno ricadute economiche (dalla vendita dei biglietti al merchandising), ma hanno il dovere di reinvestire i propri introiti nelle attività promosse dai musei stessi».
E ancora: il museo è al servizio della società e del suo sviluppo e deve essere aperto al pubblico.
«Il museo deve essere “partecipato” dai cittadini e, insieme, deve “partecipare” alla vita dei cittadini stessi. Contribuendo anche a uno sviluppo socio-economico sostenibile».
Infine, il «lavoro» dei musei: ricerca, conservazione, comunicazione.
«Prima i musei facevano solo ricerca. Ora devono porre al centro della propria missione il rapporto con il pubblico, contribuendo alla diffusione della conoscenza e alla crescita culturale e creativa di una comunità».
Non crede che la ricerca, talvolta, non abbia la necessaria centralità?
«Il museo non deve mai smettere di studiare sé stesso e il proprio patrimonio. Altrimenti, è destinato a fallire. Ogni nuovo allestimento e ogni nuova mostra non possono prescindere dalla ricerca. Non basta un bravo architetto per curare un riallestimento o un’esposizione».
Nella sua definizione, Icom parla anche di testimonianze materiali e immateriali.
«È un ambito decisivo. Il concetto di “immaterialità” rimanda anche a quelle relazioni interpersonali che, negli ultimi mesi, sono state quasi azzerate. Nell’immediato futuro, i musei dovranno occuparsi di questi aspetti. Con senso della responsabilità».
In che modo?
«Riannodando relazioni umane e sociali spezzate. Potenziando il proprio ruolo e la propria funzione comunitaria. E rivolgendo maggiore attenzione a temi oggi urgenti: la sostenibilità, i diritti umani, il rispetto delle diversità culturali, religiose, ideologiche».
Il futuro dei musei è a rischio?
«In questa fase storica epocale, Icom ha colto due trend prevalenti: l’affermarsi dei musei privati e la crescente autonomia dei musei nazionali. Melting pot di competenze e di discipline, luoghi nei quali esperienze trasversali si ritrovano nell’orizzonte di un progetto comune, per avere ancora un significato, i musei non dovranno mai smettere di reinventarsi. Solo così potranno dare un importante contributo al cambiamento del mondo».
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