L’autrice americana è diventata una star dell’editoria con storie classiche riadattate alla sensibilità e ai gusti di oggi: “Ma non chiamatela cancel culture”
di Raffaella De Santis
Madeline Miller ha imboccato il filone vincente, quello della riscrittura dei miti antichi in chiave femminista e lo ha saputo fare grazie a una prosa scintillante ad alto tasso emotivo che punta sull’immedesimazione. La scrittrice americana, classe 1978, è maestra nel fare parlare Achille, Circe, Galatea come se fossero amici dei quali si era persa traccia. Quando risponde dalla sua casa newyorchese comparendo sullo schermo del computer sorridente ma composta, verrebbe da chiederle il permesso per parlare alzando la mano.
La sensazione però dura poco perché Miller si rilassa e subito si accende nel raccontare la sua passione per la mitologia classica che dura dall’infanzia e che ha trasformato in professione:prima insegnando alle scuole superiori di Filadelfia, poi a Yale in un corso di drammaturgia e adattamento teatrale dei testi antichi, e infine scrivendo libri che i lettori di tutto il mondo adorano.Tutti bestseller. La canzone diAchille , il romanzo dell’amore tra il leggendario guerriero e Patroclo, dove piega l’epica bellica ai sentimenti, ha venduto fino ad oggi, in tutte le edizioni, tascabile e ebook compreso,350 mila copie. Circe , la maga indocile innamorata di Odisseo che invecchia, ama, soffre, ha paura, nostalgia, ripensamenti, ne conta 200 mila. Ora l’editore italiano scommette su Galatea , scritto nel 2013 ei nuscita per Sonzogno, una nuova versione illustrata del mito di Pigmalione, dove la statua prende vita masi ribella alle mani del suo creatore.
Tiratura iniziale: 30 mila copie.
Era preparata a tanto successo?
«Non so spiegare come sia accaduto, credo dipenda dalla potenza trasformativa dei miti, continuamente letti e riletti e modificati. In realtà, non ho mai creduto che fossero materia per pochi, che fossero destinati solo a quei privilegiati che accedevano a un’educazione classica. Le mie storie sono per tutti».
Perché riscriverli, non sarebbe meglio leggerli a fondo, contestualizzarli, scoprirne nuovi aspetti?
«La tentazione mi è venuta quando insegnavo a scuola. Mentre leggevo Omero, Virgilio, Ovidio ai miei alunni ho capito che la via era aprire i cancelli. Volevo permettere ai ragazzi di interagire con quei testi, di criticarli se ne avevano voglia.
Insomma, il messaggio era: potete amarli se volete e potete anche odiarli. Se pensiamo che siano opere eccezionali, come in effetti sono, allora dobbiamo credere che possano sopportare uno sguardo critico. Non sono preoccupata per il loro futuro.
Sopravviveranno».
Ma il fatto di volerli correggere, privandoli dei loro tratti maschilisti o elitisti, non rischia di essere una forma di cancel culture?
«Trovo che l’etichetta sia abusata e mi riservo la possibilità di una lettura differente, di entrare anche in conflitto con quello che leggo, di immaginare altro. Non scrivo mai per sostituire, semmai per aggiungere una prospettiva diversa. Il mio lavoro di ricerca è accurato. Per ultimare La canzone di Achille ho impiegato 10 anni, a Circe ho lavorato sette, tenendo conto di diverse fonti e versioni, da Ovidio alle Argonautiche di Apollodoro al poema andato perduto della Teogonia , del quale possediamo solo un riassunto».
Ritiene che il metodo di insegnamento delle discipline classiche sia vecchio?
«Ricordo un mio professore al liceo che entrò in classe e disse: questo è un corso di storia greca e antica, quindi nessuno mi chieda di donne e schiavi. Spesso questi studi soffrono il peso di una visione bianca e aristocratica. Per fortuna in seguito ho incontrato professori diversi, uno in particolare a cui devo il mio amore per Virgilio. Ma alla fonte di tutto c’è mia madre, i suoi racconti quando ero bambina. Ero affascinata da come quegli eroi antichi ci somigliassero: potevano arrabbiarsi e compiere errori e nello stesso tempo essere coraggiosi e innamorarsi, proprio come noi».
Il mito di Pigmalione e Galatea narrato da Ovidio è tra i più ripresi nei secoli e già aveva creato sdegno in Goethe che ne parlò come di una “favola indegna”. Ha voluto darne versione vendicativa e ribelle?
«Si tratta di una metafora della creazione artistica, ma nella storia originale, la passività di Galatea è inquietante. È disgustoso e misogino che un uomo possa crearsi una donna di cui disporre, priva di iniziativa, alle sue dipendenze come un robot. Galatea è esattamente ciò che lui vuole che sia. Quanti esempi di donne conosciamo che lottano contro uomini che le vorrebbero compiacenti? Pigmalione è solo il caso estremo di un rapporto disfunzionale, tossico».
La sua è una prospettiva femminista sulla stessa scia delle riscritture mitologiche di Margaret Atwood o Natalie Haynes?
«Volevo sottrarre Circe e Galatea al controllo delle società patriarcali. C’è da dire che a volte la costrizione può riguardare anche gli uomini. Essere femminista significa allargare lo sguardo a ogni tipo di coercizione sociale. Per questo ho raccontato Telemaco, perché anche lui come Circe o Galatea, sente il bisogno di rompere gli schemi, di liberarsi dalla pressione che lo spinge a seguire le orme paterne, a essere un bravo principe, un eroe come Ulisse. In realtà Telemaco nella vita del padre vede solo violenza, sangue, morte e desidera una vita diversa».
È vero che “La canzone di Achille” ha moltiplicato le vendite grazie al video accalorato postato da un lettore su TikTok?
«È stato fantastico, prima di allora non sapevo neanche che cosa fosse TikTok» (sorride).
Abbiamo ancora bisogno di miti?
James Hillman, al quale abbiamo dedicato Robinson in edicola, diceva che il nostro immaginario è popolato di dèi.
«La mitologia è una grande e meravigliosa scatola che mette a disposizione divinità, mostri, giganti, streghe, guerre, amori, genitori, figli, separazioni, dolori, lutti, malattie, emozioni. Abbiamo fame di narrazioni visionarie che siano leggende antiche, Il trono di spade o i film della Marvel. Iron Man o Thor o Wonder Woman non sono che versioni moderne degli eroi antichi».