Dibattito Grandi capolavori della letteratura hanno celebrato il male, la crudeltà, la guerra, la schiavitù, l’ingiustizia
Norman Manea pensa che le biblioteche ci salveranno, ma è legittimo dubitarne
di Claudio Magris
Ho incontrato per la prima volta Norman Manea molti anni fa a Toronto, in occasione del Festival di Letteratura, uno dei più grandi e vivaci del mondo, in cui c’erano scrittori dei Paesi più diversi, una fiera di incontri e di eventi — da anni parola magica, supponente e vaga della cultura contemporanea; una molteplice orchestra che si muoveva soprattutto intorno a Susan Sontag. In quel giorno, quando Norman ed io ci siamo conosciuti, eravamo alle cascate del Niagara; ci avevano portati lì in tanti bus, come in una gita scolastica, bene avvolti in multicolori cerate per proteggerci dagli spruzzi delle grandi acque, portate con forza dal vento. C’era accanto a noi un collega italiano al quale avevo presentato Norman ma che aveva capito «scrittore armeno» anziché romeno e cercava di profondersi in dichiarazioni appassionate ancorché vaghe sulle letteratura armena.
Come ricorda Marco Bruna nel suo intenso ed essenziale articolo sul «Corriere» il 24 aprile, sono stati due grandi come Heinrich Böll e Philip Roth a scoprire la forza creativa di Manea, il suo tragico umorismo, il suo ironico affetto per la vita e per i viventi. Philip Roth ha voluto pure impegnarsi ad ospitarlo post mortem nella propria tomba, geniale espressione dei rapporti fra pietas, fraterna amicizia e umorismo.
Ma prima di offrirgli questa dimora d’arrivo Roth lo aveva aiutato a trasferirsi negli Stati Uniti e a diventare professore al Bard College, un illustre college nella valle dello Hudson dove un tempo ha insegnato ed è anche sepolta Hannah Arendt. Anni dopo, invitato in quel college, ho avuto anch’io occasione di frequentare Roth e soprattutto Manea, che nel corso degli anni e dei frequenti incontri è divenuto uno dei grandi amici della mia vita, insieme a sua moglie Cella. Ho anche tenuto il discorso su di lui e la sua opera quando ricevette il premio Nonino nel 2002. Norman è uno dei grandi scrittori del mondo, anche se preferirebbe essere un autore meno celebrato ma narratore di un mondo diverso e migliore.
Le grandi parole umane e poetiche di Manea sono esilio, circo, lager; la Storia come dittatura tragica e farsesca, in cui niente fa più scandalo perché tutto è scandalo, che doma il dissenso con la farsa. Se l’esilio ha fine, non è il ritorno della patria e della libertà, ma il ritorno dell’huligan, come dice il titolo di un suo libro. Lo straordinario è che da questa esperienza del mondo quale acrobazia di saltimbanchi senza rete nasca una narrativa ricca come poche altre di calda umanità, di amicizia, di affetti umani profondi e di assoluta autenticità.
Personalità
Manea è passato attraverso esperienze terribili senza perdere l’umanità e l’ironia
L’esilio è la Patria di Manea in un mondo — specialmente ma non soltanto il suo, quello dell’Europa orientale — che ha distrutto e depravato le patrie. Nato nel 1936 in Bucovina, Manea si è formato, sin dell’età di cinque anni, alla più terribile e terribilmente efficace scuola della dittatura e del campo di concentramento, esperimentandone le diverse varianti. A cinque anni deportato in un campo di lavoro del regime fascista di Antonescu, più tardi in una «struttura psichiatrica» del regime comunista di Ceausescu, di cui nei miei viaggi danubiani ho visto la decadenza e la fine, tragiche e tragicamente carnevalesche. Appena nel 1988, in un clima politico del tutto diverso, Norman è riuscito a recarsi negli Stati Uniti.
Profondamente legato alla sua terra, Manea l’ha vissuta e la vive come un Paese dell’anima, ma la cultura che ha segnato di più il suo Paese è una cultura talora anche grande e infera, che sarebbe impreciso definire fascista, anche per le grandi differenze al suo interno, ma che è indubbiamente segnata da una fascinazione demonica e anti umanistica. La cultura dei Cioran, dei Mircea Eliade, dei Noica e di parecchi altri — nomi certo divisi culturalmente e politicamente sotto vari aspetti, ma rispetto ai quali, alla loro arte di lanciatori di coltelli, l’umanità e l’ironia acuta ma pervasa di benevolenza è distante come l’umano dall’inumano. Lo rivela pure il linguaggio di questa cultura, simbiosi di complessità capace di cogliere i diversi livelli del reale e di capacità di rendere chiaro il complesso. Tra le varie eccellenti versioni italiane, vorrei ricordare, con affetto e ammirazione, quelle di Marco Cugno, e non solo perché è stato mio amico e compagno all’Università di Torino. Ho fatto spesso il nome di Norman, che tuttavia non sarebbe completo se non si aggiungesse quello di Cella, sua moglie, che ha attraversato con lui tanti deserti che da solo non avrebbe superato. Vederli insieme fa capire cosa significa «un uomo e una donna».
C’è solo una dichiarazione di Norman, riportata da Marco Bruna, che non condivido. Alla domanda, relativa all’odierna Ucraina, se «la letteratura può salvarci dagli orrori di questa guerra», Norman risponde: «Le biblioteche di tutto il mondo si riveleranno una cura duratura e salvifica. I lettori riusciranno sempre a trovare le pagine giuste». Non ne sono convinto. Tanti grandi libri — che continuiamo ad amare per quello che ci danno nonostante le loro ideologie e talora anche il loro amore della violenza — hanno celebrato il male, la crudeltà, la guerra, la schiavitù, l’ingiustizia, la tortura.
Nonostante la grandezza di alcune pagine assai poco umane, il male è spesso kitsch e nell’artista si nasconde il dittatore. Grazie a Dio esistono facce sornione e umane come quelle di Norman, che non si lascia sedurre, come ha detto, da un mondo spesso talmente guasto da non permettere al male di diventare uno scandalo.