Tra i modi con cui il potere vampirizza i cittadini c’è la capacità di scaricargli addosso dei compiti che sarebbe suo dovere assolvere, o anche solo delle incombenze ingrate. Ad esempio, il lato più becero dello scontro politico. La Seconda Repubblica è stata celebre anche per le risse mediatiche nel corso delle quali esplodevano insulti impossibili ai tempi della Democrazia Cristiana.
Non era esaltante vedere un onorevole comportarsi come un ultras, ma quella era diventata la parte meno nobile di una professione in cui l’aggressione pagava più di un normale ragionamento. Oggi il lavoro sporco è affidato ai cittadini, i quali lo eseguono a titolo gratuito.
Da una parte il consenso politico ha bisogno di un nemico contro cui scagliare insulti e accuse farneticanti. Dall’altra, non è detto che ai membri di un partito convenga usare sempre apertamente quei metodi. In certe fasi lasciano che a farlo siano gli elettori online.
Se un deputato dichiara di non essere razzista ma i suoi post scatenano centinaia di messaggi xenofobi e aggressioni telematiche in difesa della razza, un problema dovrebbe porselo. A meno che appaltare la violenza fuori dal Parlamento (perché ci rientri in forma di consenso) sia il fine di quei post.
Ma come si spingono le persone a diventare violente al posto nostro? Risposta: convincendole che non si stanno scontrando tra pari. Il trucco consiste nel fare in modo che dei comuni cittadini attacchino altri comuni cittadini come un tempo sognavano di fare con i politici che odiavano. In questo scambio rituale si nasconde la trappola tesa dal potere alle sue vittime, che sono anche i suoi tifosi.
Assistiamo così al paradosso folle per cui su Facebook un onesto elettore della Lega che paga le tasse e fatica ad arrivare a fine mese può attaccare sui migranti un onesto elettore del Pd che paga le tasse e fatica ad arrivare a fine mese come se si trovasse di fronte George Soros in persona; e al tempo stesso quell’elettore del Pd può aggredire quell’elettore della Lega come se una parte dei cinquanta milioni di rimborsi elettorali svaniti nel nulla se li fosse intascati il suo interlocutore telematico.
Per la democrazia contemplare l’avversario è la conditio sine qua non. Peccato che il peggior potere non abbia bisogno di avversari cui riconoscere dignità, bensì di gladiatori-elettori da far scannare in nome di un nemico che ogni disgraziato armato di elmo e di spadone vede incarnato nel suo omologo.
Più ci si tratta da nemici tra comuni cittadini, meno si sarà disposti a sottoporre a verifica le proprie convinzioni. E chi, se non i fanatici, cessano di sottoporre a verifica le proprie idee? Con l’aggravante che se la persona in nome della quale non sei più disposto a cambiare idea è un leader politico, ti trasformi nel suo servo. Uno scontro brutale tra servi di diversi padroni: è lo spettacolo cui assistiamo, e da cui rischiamo di farci contagiare.
Ma trasformarsi in hater non paga mai. L’istigazione alla violenza conviene ai politici che la fomentano, mentre l’odio della gente comune danneggia chi lo pratica. L’hater lo riconosci di solito per l’incredibile sproporzione tra il numero abnorme di messaggi prodotti e i pochi follower. Peccato che i messaggi di odio non siano convertibili in bitcoin, non servano a trovare lavoro, non migliorino il futuro dei propri figli. Cosa succederà quando, dopo aver scagliato un altro milione di tweet violenti, quell’esercito di gladiatori si ritroverà con gli stessi problemi di prima e, guardando verso l’alto, riconoscerà, circonfuso di luce, il leader di cui ha determinato il successo combattendo al suo posto nel fango?
Hater, ultras, gladiatore, servo telematico: è lui la vittima del nuovo sistema di potere, e – per quanto complicato da affrontare – il nostro vero prossimo.