di Ezio Mauro
Per un’astuzia della storia, che talvolta coincide con il caso, il movimento Cinque Stelle si trova a un bivio della sua vicenda proprio nel momento in cui dopo un periodo di declino ha vinto il referendum sul taglio dei parlamentari. Se si volesse esagerare, si potrebbe dire che è il bivio tra l’essere e il dover essere.
I grillini governano il Paese dalle ultime elezioni (per tenere in mano l’esecutivo hanno addirittura compiuto una giravolta nelle alleanze, passando di colpo da Salvini al Pd) hanno indicato il presidente del Consiglio, guidano importanti ministeri, hanno trovato un loro ubi consistam in Europa e sperimentano attraverso il premier un utile rapporto politico di scambio con la Ue, e una corretta interlocuzione con l’establishment di Bruxelles e le cancellerie.
Sono tutti elementi, con ogni evidenza, che definiscono una forza di sistema, anche se con i Cinque Stelle la parola va pronunciata sottovoce, come fosse una bestemmia. Ma questo oggi è il loro essere: una involontaria forza di sistema, recalcitrante.
L’identità simbolica, invece, quello che cioè dovrebbero essere secondo i canoni fondativi immutabili, è quasi il contrario: una forza di destrutturazione del sistema, auto-corazzata come una testuggine, che non crede nelle competenze e nelle esperienze perché ogni conoscenza contiene un’insidia castale e il sapere è comunque sospetto in quanto riproduce il meccanismo delle élite. Dunque si governa per battaglie di bandiera, si cambia continuamente la classe dirigente perché in realtà è una classe servente del carisma impersonale del movimento, capace di soffiare su chiunque, trasformandolo in uomo (provvisorio) di Stato: uno Stato che merita di essere rappresentato solo a partire dall’anno zero dell’avvento grillino, mentre prima le storia repubblicana era immobile e inutile.
Stare a cavallo di queste due concezioni contrapposte della democrazia politica è un’impresa molto ardita. Fallito il tentativo di dividersi i ruoli tra un’anima guerrigliera e un cuore ministeriale, perché Di Battista alla fine si è messo in proprio e vuole tutto, la strategia di Di Maio sembra chiara: si governa, in centro e in periferia, accettando patti, alleanze e compromessi, come vuole la regola democratica quando è necessario formare una coalizione: e intanto, come su un’agenda parallela, si preparano campagne sui vecchi temi del populismo fondativo grillino, che conservino almeno l’eco del “Vaffa” dei miracoli, oggi impronunciabile in doppiopetto. Quindi il taglio dei parlamentari, e subito dopo un altra fiammata anti-casta, con il taglio degli stipendi.
È un tentativo di correggere la politica con dosi omeopatiche di antipolitica, che consentano al movimento di immergersi periodicamente nella fonte primigenia della sua diversità aliena. Rinnovando la promessa perenne di non-omologazione, e cercando di ritrovare quel consenso nato da una proposta radicale non di cambiamento, ma di sostituzione generale, davanti alla delusione della rappresentanza tradizionale e alla solitudine repubblicana del cittadino. Raccogliere questo smarrimento e questo risentimento è certamente un’operazione politica: ma poi la vera partita (soprattutto per una forza di governo) è emancipare questi stati d’animo collettivi indirizzandoli dentro un progetto di cambiamento, non eccitarli a colpi di referendum su campagne di semplificazione demagogica dei problemi del Paese. Come se le forbici e l’accetta fossero il vero simbolo grillino, prendendo il posto della vecchia falce e del martello nell’iconografia storica della sinistra.
Invece la doppia natura governante e populista rischia di produrre un doppio partito, ingigantendo le linee di faglia. E inevitabilmente tutto si scarica sul mito denudato di Rousseau, il tabernacolo tecnologico che contiene il mistero delle origini, la formula ricorrente del plebiscito (quando gli iscritti sono chiamati a ratificare decisioni già prese dal vertice), l’identikit sconosciuto degli iscritti, il codice segreto che guida i destini del movimento. In base allo statuto, la piattaforma Rousseau e il M5S non possono fare a meno l’uno dell’altro perché si ri-generano continuamente a vicenda e restano legati da un cordone ombelicale ideologico perpetuo. Ma nel momento in cui si arriva davanti al bivio tra le due nature del movimento si scopre che in realtà Rousseau è custode rigido e inflessibile dell’essenza originaria, populista e antipolitica, e intende far valere fino in fondo le regole statutarie che discendono da quella cultura.
Come Hal, il computer di Odissea nello spazio, l’algoritmo si ribella, da strumento si fa soggetto, da tecnica vuole diventare direttamente politica, dettando la linea e prendendo il potere: proprio mentre tra i grillini cresce invece un movimento spontaneo di liberazione dall’algoritmo, con i sindaci che fanno saltare la regola dei due mandati, i parlamentari che rifiutano il pagamento del contributo mensile alla piattaforma, i dirigenti che vogliono aprire alle alleanze locali con il Pd, infrangendo il decalogo di Rousseau sulla separatezza dei Cinque Stelle nel rifiuto di ogni contaminazione e nell’indifferenza tra destra e sinistra. Fino all’idea di correggere il codice etico, se serve all sindaca di Torino Appendino per poter essere candidata nel vertice del movimento. Il risultato è che Casaleggio minaccia di mettersi in proprio, visto che è lui – privato cittadino non eletto da nessuno – il proprietario di Rousseau: mentre i grillini lo accusano di aver nascosto e confiscato l’elenco degli iscritti che nell’incredibile paradosso finale appartengono al movimento, senza che però il movimento ne conosca i nomi.
È l’esito inevitabile della politica ridotta a tecnica, disincarnata, immateriale, nella convinzione che la democrazia diretta sia la nuova meccanica politica, costruita a colpi di click nella solitudine di individui isolati: mentre invece così si raggiunge soltanto una sommatoria di opinioni private ma non un’opinione pubblica, perché la democrazia è circuito, passaggio, scambio, interazione, dialogo, è l’incontro di aspirazioni singole e malcontenti separati che si uniscono e si trasformano in una “causa” generale che nessuna formula matematica potrà mai sostituire. La battaglia dell’algoritmo, dunque, non è solo una partita di potere, perché decidendo il futuro dei Cinque Stelle ci dirà qualcosa anche sul mondo che ci aspetta, nella contesa in corso tra il potere separato del click e la fatica collettiva della democrazia.