di Maurizio Molinari
L’ economia
cambia volto, i centri delle città si svuotano, nuove abitudini quotidiane si impongono e gli spazi degli uffici vengono ripensati: è l’impatto dell’ home working (il lavoro da casa) che sta cambiando radicalmente l’idea stessa del luogo di occupazione innescando conseguenze a pioggia, che includono opportunità e rischi.
Per comprendere l’impatto del lavoro da casa bisogna partire dai numeri generati dalla pandemia Covid 19: un’indagine Gallup attesta che alla fine di aprile lavoravano in remoto oltre metà degli americani — pari a due terzi dell’intero sistema economico più ricco del Pianeta — e un recente studio della Stanford University in California aggiunge che in questo mese di luglio la percentuale di chi lavora in ufficio negli Stati Uniti si è ridotta al 26 per cento.
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segue dalla prima pagina C iò spiega perché un gigante della Silicon Valley come Facebook ha scelto di tenere a casa circa la metà dei suoi 25 mila dipendenti e un protagonista del mercato assicurativo come Nationwide ha ridotto le sedi ad appena 4, chiedendo a tutti gli altri dipendenti di lavorare da remoto. E non è solo un fenomeno nordamericano perché, come documenta una ricerca del Massachusetts Institute of Technology di Boston, si ripete in tutti i Paesi avanzati che sommano standard alti di connettività ed efficienti sistemi politici pro-lavoro come ad esempio Belgio, Canada e Svezia. Se invece l’accesso a Internet ha qualità bassa, la protezione del lavoro è debole e lo sviluppo industriale è precario allora anche l’home working viene rallentato: come avviene in Brasile, Cina e Nigeria. Da qui il timore, sollevato dal “Business Talent Group” di Los Angeles, in California, che «l’home working si trasformi in un mercato globale dei talenti» relegando in posizione secondaria chi svolge altre professioni nei Paesi industrializzati e, ancor più, le popolazioni dei Paesi meno avanzati. Ad avvalorare tale rischio di generare diseguaglianze è quanto sta avvenendo negli Stati Uniti dove a lavorare in remoto sono le persone più colte e preparate, a proprio agio con le nuove tecnologie, mentre chi opera in settori dell’economia come commercio, salute, trasporti e rapporti con i consumatori è obbligato a recarsi a lavoro guadagnando — in media — assai meno dei nuovi dipendenti dell’home working.
Di conseguenza i centri delle grandi città tendono a svuotarsi perché i grandi uffici delle aziende più tecnologicamente avanzate riducono le dimensioni delle sedi mentre gli altri in genere mantengono i propri spazi, con il risultato che le entrate fiscali delle città dovute ad affitti di beni immobiliari diminuiscono, creando problemi fiscali di nuova generazione.
D’altra parte, ad aver dimostrato l’efficienza dell’home working è uno studio dell’economista di Stanford, Nick Bloom, pubblicato nel 2015 dal quale si apprende che in Cina i dipendenti dei call center che lavorano da casa hanno un incremento di produttività del 13 per cento perché «fanno meno soste», «eseguono più chiamate al minuto», «sono più felici» ed «è meno probabile che lascino l’occupazione». Tutto ciò per motivazioni assai simili a quelle di dipendenti europei ed americani che Monica Kirkpatrick Johnson, sociologa della Washington State University, riassume così: «Gli occupati in genere resistono alla necessità di tornare a lavorare nel luogo della loro azienda dopo aver testato di persona l’entità del lusso di non doversi mai togliere il pigiama». Il risultato di tale tendenza è che molte aziende, grandi e piccole, stanno ripensando la gestione dei propri spazi: liberarsi di stanze e scrivanie vuote aiuta i bilanci in un momento in cui l’economia rischia il collasso e dunque anche il mercato immobiliare si ridefinisce perché i grandi locali perdono valore e quelli piccoli invece lo acquistano. Nulla da sorprendersi se lo Stato di Washington, dove si trova la metropoli di Seattle, ha adottato la decisione di consentire alle dipendenti pubbliche di portare al lavoro i propri bambini — anche se molto piccoli — perché ciò le rende «più felici e produttive» in una sorta di inedita competizione con l’home working a casa propria. E c’è dell’altro perché a cambiare è anche una caratteristica di fondo del mercato del lavoro ovvero la capacità di ottenere risultati: finora veniva spesso collegata con il networking ovvero la capacità di interagire con colleghi e persone estranee ma ora tutto ciò si rovescia e l’abilità si misurerà in rapporti personali, diretti, online, nel proprio salotto di casa o altrove, dove a prevalere è la dimensione privata e non più “social” dell’occupazione. Amol Sarva, co-fondatore e ceo di Knotel, un’azienda digitale che si occupa di disegnare spazi di lavoro ed ufficio, ritiene che sia in corso «una rivoluzione» illustrata dalla decisione del ramo olandese di Cushman & Wakefield, gigante immobiliare Usa, di ridisegnare gli spazi interni dei locali che affitta ad Amsterdam per poterli arredare andando incontro alle nuove necessità: come ad esempio avere colori diversi a terra e sulle pareti per sapere dove si può andare o meno per mantenere le “distanze sicure” imposte dal Covid 19. Insomma, la pandemia ancora non è sconfitta ma ha già trasformato il lavoro da remoto in un elemento di evidente cambiamento delle nostre abitudini, sociali e non.