Non arretra di fronte al vizio. Ha la faccia massiccia di chi azzanna, di chi, perfino per tedio, sfida tutto, dice sempre l’ultima parola, non indugia se bisogna dare il sangue. In un ‘pezzo’, La bottega scapigliata di Vito Riviello, si svela: “Da comunista divenni socialista; ma per me essere socialista significava soprattutto stare con i perdenti e i reietti”. Non c’è altro destino – altro che l’impegno prezzolato dei prezzemolini, dei bolidi astuti – che vivere a capofitto, nei bassifondi della vita, dove ogni vita ha lo splendore di una rasoiata in faccia. All’“apocalisse morale”, come la chiama, mi pare, preferisce l’estasi del dubbio, all’impegno il miracolo, al reggimento dei furbi, l’ho detto, l’abracadabra del vizio, il bel gesto per il gusto, una sonora maleducazione, la schiettezza. Andrea Di Consoli fu tante cose; dacché ogni volta muore per risorgere, identico e diverso: scrittore (Il padre degli animali e La collera, tra gli altri, sono editi da Rizzoli), poeta (La navigazione del Po è stampato da Aragno), giornalista inquieto. Da vent’anni lavora in Rai come autore; quest’anno, per Editoriale Scientifica di Napoli, ha pubblicato Tutte queste voci che mi premono dentro. È un libro che non ha genere, che genera reazioni, che ti afferra per le spalle: si parla, tra l’altro, “degli scrittori tabagisti” (“Una volta temevo di morire a trent’anni, come uno dei poeti più presenti nella mia vita, Rocco Scotellaro…”), dell’ex manicomio di Aversa, di politica (intesa come catabasi nel fango umano). Alcune pagine ‘di cronaca’, diciamo così, al vecchio modo, commuovono. L’omicidio di “Lolita”, la cantante Graziella Franchini, una partecipazione al Festival di Sanremo nel 1973, poco più che ventenne, che coincide, “quasi senza motivo con la sua lenta fuoriuscita dallo star-system, la sua carriera fu precoce e folgorante”, ad esempio, un assassinio “improvvisato, emotivo, scomposto, disordinato, figlio dell’ira, premeditato senz’altro, ma sfuggito di mano lì per lì, come una marea improvvisa”, insoluto. C’è poi il servizio sul “lato oscuro della pornografia”, che indaga le decine di “attrici e attori hard che si sono tolti la vita”. Di Consoli scava lì dov’è il cuore nero della vita, senza obliare il dolore, tra i rovi e le vergogne, pieno di ferma compassione. Spesso, dice, i libri gli vengono estorti; spesso la scrittura è una costrizione, dice (anche in questo caso: “Ringrazio Fabrizio Coscia per avermi costretto a fare questa piccola raccolta…”). D’altronde, è così che si scrive, premuti, pretesi, scaltri nella sconfitta; la vita è la forza dominante.
Letteratura & impegno: una necessità, un paradosso, una etichetta come tante… Dimmi.
Che dirti? Forse dovrei essere uno scrittore impegnato a difendere gli sfruttati, gli ultimi, il pianeta, i diritti umani, le minoranze, ecc. Male non sarebbe; intendo dire da un punto di vista morale. Ma mi sono sempre perso dietro a cose più nei paraggi della mia disgraziata vita quotidiana: nostalgie, amori, letture disperate, bisogni, amicizie, figli, ansie, problemi economici, insufficienze, stanchezze, ecc. Sono uno scrittore stanco, ecco, spesso depresso, scettico, perplesso, pieno di malinconie e malumori, incostante, vanitoso e autodenigratorio, pieno di sensi di colpa per tutto, anche per l’uccisione di una mosca. Sinceramente non ce la faccio a uscire da questa mia vita quotidiana piena di parole e di non detti, piena di amore e di solitudine. Non appena mi ergo al di sopra delle mie nevrosi per gettare uno sguardo impegnato sul mondo, la centrifuga della mia vita disgraziata mi risucchia miseramente, e ricado nei miei paraggi: nei paraggi delle mie nevrosi di scrittore controvoglia.
Letteratura & politica. Tema arduo. Eppure – ne scrivi – hai fatto politica e sei scrittore. Non hai paura di “sporcarti”. Insomma, dì.
Anche qui, che dirti? Ho un’idea molto pratica e mondana della politica. Ci si candida, si cercano i voti e, se si viene eletti, si sta tra la gente, e la gente ti succhia l’anima, ti chiede favori, ti denigra, dice che ti sei venduto, che sei come tutti gli altri, ma se hai deciso di farlo, allora lo fai e basta, e porti la croce, perché poi qualcosa di commovente esce sempre. Ho letto tonnellate di libri di politica, ma ho capito che se vuoi fare politica sul serio devi abbandonarti a questa follia di farti sbranare dalla gente, di non avere più tempo per niente, né per leggere né per amare e nemmeno per pensare alla morte. Lo farei? Forse, ma solo forse, lo farei per la mia Lucania. Ma so già che me ne pentirei. Perché la politica è anche interessi, appetiti, competizioni, colpi bassi, miserie, e io sono anche pigro, e certe volte amo non essere niente, non fare niente, stare buttato da qualche parte come una cosa inutile, e stare lontano dalle resse umane. Però non amo chi parla di utopia, di sogno, di mondo da cambiare. Voglio amare la vita e il mondo ora, così come sono, perché è troppo breve la vita per gettarla tra le braccia dell’utopia, che è sempre domani, dopodomani, forse mai. Quindi niente proclami, niente grandi discorsi, niente messaggi messianici o salvifici. Si fa quel che si può, questo è il mio motto.
Ti salva la vita Marx o Umberto Saba (o nessuno dei due). Ergo: che senso ha la poesia?
Caro Brullo, la vita te la salva solo Dio, se c’è. Sennò non ti salva proprio niente, né Engels né Schiller. La vita su questa terra, invece, diventa sopportabile se hai tregua, se ti dà tregua, se ti concede qualche pausa dal dolore. Che sia la poesia, che sia l’amore, che sia una qualsiasi altra cosa non importa. Sulla poesia invece posso dirti questo: per me è il sentire più profondo e intenso del genere umano. Dietro la poesia c’è solo il rumore della genesi delle parole, e poi il silenzio. È un territorio facile e durissimo; è lì alla portata di tutti, ma è per pochi. Poi, sai, ognuno ci fa quello che ci vuole. C’è chi canta, chi fa il controcanto e chi fa le pernacchie alla tradizione lirica. Io capisco cos’è la poesia quando leggo Pascoli, Gozzano, Montale, Auden, Eliot, Pound, Lowry, Frost, Pavese, Sinisgalli, Pasolini, Rosselli, eccetera eccetera. Capisco il senso della poesia leggendola, studiandola, ascoltandola. Ma è un senso che non saprei definire, e che non ho nemmeno tanta voglia di definire troppo. Io dico questo: continuiamo a leggerla a scriverla anche senza capire bene cosa sia.
Nel tuo libro leggo un tema trasversale, che valica tutto: la terra (l’identità), il corpo (questo, il mio; e il corpo ‘sociale’), l’amore (che diventa morte nel mercimonio del porno). La letteratura è dunque questo: identità, carne, amore?
Brullo, tu mi metti a dura prova. Sei tremendo. La letteratura è troppe cose; forse, tutte le cose visibili e invisibili, reali e irreali. Sono tutti temi che vivo sulla mia pelle, quelli che hai elencato – identità, carne, amore – ma davvero non saprei da dove iniziare. L’identità è sapersi, è sapere cosa sei. O forse è avere una casa, una terra. È questo? Mi appartiene? Molto. Perché non mi conosco bene – mi sconcerta quanto poco io mi conosca – e perché vorrei avere una casa, una terra sicura, pensieri condivisi in una comunità che ti raccoglie. Ma sono frantumato, e devo dire che questa frantumazione mi dà anche piacere – vivo una sorta di voluttà dello sbandamento e dello smarrimento. Guarda che poi non è mica così male non sapere, non conoscere, non capire. Siamo ossessionati dal capire, dal sapere. Sai che ti dico, caro Davide? Che io ho anche imparato che è bello vivere senza capirci troppo, buttarsi a capofitto senza capire bene dove si sta andando. E se una cosa non la capisco, pazienza, me la tengo addosso ugualmente, perché tanto nessuno mai riuscirà a trovare la formula per tenere a bada la vita, per metterla al sicuro. È un attimo, e siamo dall’altra parte, e addio architetture e teoremi. Sulla carne cosa vuoi che ti dica? È tutto quello che ho. Cos’altro ho se non questi occhi, questo sesso, questa bocca, questo stomaco, questo cervello? Mi dicono che sono carnale, viscerale, corporale. Io la amo follemente, questa carne, anche se porta con sé la miseria e la morte, che è disegnata da subito con lo scheletro. Mi dispiace solo che fra qualche anno non ci sarò più – per quanti potranno essere, saranno sempre pochi gli anni che mi rimangono. E mi dispiace non poter più abbracciare, amare, mangiare, sudare, dormire sognando tutti quei sogni che al mattino ti fanno capire che tutto è ancora più ingarbugliato di quanto sembra. E poi mi chiedi dell’amore. Mi piacerebbe avere dentro di me una scatola nera, come gli aerei. Mi piacerebbe staccarla dal mio cuore o dalla mia pancia e dartela. E dirti: eccola, caro Brullo, se hai tempo da perdere ascolta tutto, cerca di capirci qualcosa almeno tu, se proprio ti va. È stato tutto dolce e tumultuoso, tenero e violento, estatico e doloroso. Ho amato molto. Ma credo di aver amato male. A dire il vero io credo di aver fatto tutto male: e amare, e scrivere, e finanche vivere.
Come vivi, dunque, l’era del distanziamento, della mascherina, del vaccino, del contagio?
Come tutti. Sono un cittadino che tende a fidarsi. Servono le mascherine? E mettiamocele. Serve il vaccino? E facciamocelo. Serve il distanziamento. E pratichiamolo. Mica so tutto, io. Ci sono medici, ci sono scienziati, ci sono politici che si stanno assumendo delle responsabilità difficili. E io sono un cittadino anarchico, solitario ma leale, che sa ubbidire. Mica bisogna mettersi per forza contro tutto, oppure stare sempre lì a pensare che vogliono fotterci. È una brutta cosa, una pandemia; ma è anche una brutta cosa la paranoia. Non ho avuto mai paura in questi mesi – qualche volta magari sì – ma sono sempre stato prudente, anche se ho sempre lavorato e non mi sono mai fermato. L’unica cosa che non mi è piaciuta a un certo punto è stata l’eccessiva paura degli italiani. Intendiamoci, è stata legittima, umana. Ma a un certo punto ho sentito ritirarsi la vita, rattrappirsi. E là mi sono incazzato, e ho reagito. Ma per il resto è stata una pagina difficile della nostra storia, e sono certo che ne usciremo. Spero senza diventare automi digitali.
E ora: cosa stai scrivendo; qual è il libro che ti ha segnato la vita; qual è il libro che hai dato come insegnamento (se così vale) ai tuoi figli?
Fammi asciugare il sudore, fa troppo caldo. Non amo bere d’estate, ma ora un whisky me lo berrei con piacere, per come mi hai spremuto. Sto scrivendo un libro di poesie – me lo ha tirato fuori Mario Desiati, che ha questa cosa da sciamano di venirti a trovare fosse anche nel deserto e di tirarti fuori il libro che hai dentro. E poi sto scrivendo per l’editore Rubbettino un libro sulla Svizzera, terra dove sono nato, dove ho vissuto per undici anni e dove sono tornato spesso per lavoro. Mi chiedi poi del libro che mi ha segnato la vita. Il libro non so, ma gli autori sì: Scotellaro, Saba, Montale, Sinisgalli, Pavese. Ai miei figli invece non ho mai fatto leggere un solo libro. Magari gliene ho parlato, ho accennato a qualche trama, a qualche storia, ma io non ho mai fatto leggere libri ai miei figli. Se lo hanno fatto lo hanno fatto di testa loro. Ho sempre voluto che i miei figli fossero come gli altri figli, e che usassero le stesse parole degli altri. Ho sempre detto a mio figlio grande che la cosa più importante è stare con gli altri, provare a starci bene, e a non vivere troppo distanti dagli umori del proprio tempo. Perché i miracoli, se avvengono, e quando avvengono, avvengono sempre nel presente, in questo mondo. E i miracoli avvengono. Finché si è in vita avvengono sempre.