Il regista: racconto proustiano.
Valerio Cappelli
Roma
Quando il cinema si fa memoria collettiva. «Sono stato ispirato da Proust», dice Edgar Reitz. Heimat racconta la Germania dal primo ‘900 al 2000 attraverso la lente di un remoto villaggio dove il regista è cresciuto (poi spostò la cinepresa a Monaco e Berlino. Fu un trionfo. Una saga da 60 ore per 31 episodi (il primo è disponibile da oggi per gli abbonati digitali del Corriere). «Non è né un film o una serie. Io definisco questa forma di racconto come Cronaca di finzione», dice Reitz, che presenta la versione restaurata.
«Dal 1979 lavoro senza interruzione a Heimat. La prima parte andò nell’84 alla Mostra di Venezia, dopo uscì in molti paesi del mondo. Heimat continua a essere visto nei cinema, in tv e ai Festival. E’ diventato un classico del cinema d’arte, va al di là dell’attualità e delle mode estetiche».
Lei ha detto che il significato della saga può essere compreso veramente soltanto oggi…«L’arte del cinema è in pericolo perché le nuove tecnologie, come le piattaforme streaming, stanno modificando la fruizione. A soffrirne sono soprattutto le sale. Per noi registi rimane la speranza dell’immortalità dell’arte».
«La produzione di Heimat 1 è durata cinque anni. Malgrado l’ambientazione storica, abbiamo lavorato con pochi soldi e una mini troupe di 12 persone, facendo tutto con le nostre mani, facciate storiche, costumi. Le tv non erano preparate per un’opera fuori norma, hanno appoggiato il progetto molto più tardi».
Classico
Reitz: è diventato un classico del cinema, va al di là dell’attualità e delle mode estetiche
Il pubblico italiano si innamorò di Heimat 2, dove soffia il ’68. «In Germania invece fu un grande successo Heimat 1. Forse ci si aspettava il seguito della storia di paese e dell’idillio rurale. Quando fu chiaro che dalla campagna mi spostavo in città, raccontando le vite turbolente di giovani artisti, l’interesse scemò. In Italia è successo il contrario, si è vissuto Heimat come uno specchio delle proprie vite».
Quando si supererà in Germania quello che lei chiama lo shock della memoria rispetto al «grande passato»? «Il confronto col nazismo e l’elaborazione dei suoi crimini è stato per la mia generazione l’impegno politico più importante della nostra vita. Abbiamo trasformato la Germania in una delle più stabili democrazie del mondo. Purtroppo ora in molti paesi sta crescendo un nuovo fascismo, i giovani non hanno a disposizione la memoria delle catastrofi del XX secolo e sono indifesi rispetto alle menzogne e agli slogan degli agitatori radicali di destra».
Lei ci disse che la Germania ha paura del futuro: «La generazione dei miei genitori ha perduto tutto: i loro padri, le loro case, i loro risparmi. Una perdita che è tuttora incagliata nell’anima dei tedeschi e ne spiega le paure. Può essere positivo quando si tratta di prevenzione come nel caso del Covid. Il lato negativo è che il mio paese tende all’isteria. C’è un’enorme paura di qualsiasi cambiamento».