Hans Kelsen l’uomo che amava lo Stato di diritto

Torna in libreria l’opera più importante del grande filosofo e giurista novecentesco. E qui il curatore italiano, Mario G. Losano, ci racconta perché rileggerlo è ancora un antidoto all’oscurantismo e all’arbitrio
di Bruno Quaranta
La prima edizione italiana è del 1952.
Fra chi la compulsò, preparando l’esame di Filosofia del diritto, Alberto Arbasino, che ricordava: «Noi studenti d’allora la trovavamo assai elegante non solo per la copertina (lo stesso design dei Saggi , però in grigioperla e non arancione), ma perché la dottrina “pura” – viennese come Wittgenstein e Adolf Loos – insegnava a considerare il diritto senza ideologie». Ritorna per Einaudi La dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, a cura di Mario G. Losano.
Allievo di Norberto Bobbio, dal professore venne incaricato di tradurre l’edizione ampliata dell’opera rispetto a quella che vide la luce nel 1934.
La dottrina pura, ovvero la scienza che studia il diritto valido, esistente, non proponendosi di legittimarlo come giusto o di squalificarlo come ingiusto. Oltre la psicologia, la sociologia, l’etica, la teoria politica. Più che attuale, Kelsen non è un classico?
«Che cosa c’è di classico in Kelsen? Il marchio di fabbrica della sua teoria: le norme sono valide perché organizzate in un ordinamento piramidale. È la struttura che consente di unificare il diritto vigente. In che cosa è attuale? È il teorico della democrazia parlamentare, da cui nasce la piramide giuridica».
L’ordinamento giuridico, secondo Kelsen, è valido perché si fonda sulla norma fondamentale. In che cosa consiste?
«È una norma – qui una contraddizione del giurista – non posta dal legislatore, ma presupposta: “Bisogna ubbidire alla Costituzione”».
Un’accusa paradossale è stata rivolta alla dottrina di Kelsen, se si pensa alle sue origini ebraiche e alle sue frequentazioni socialiste nei primi anni viennesi: essere applicabile anche ai totalitarismi, a cominciare dal nazismo.
«Kelsen distingue fra diritto e giustizia. I contenuti delle norme non sono affar suo. La sua teoria pura del diritto spiega anche il diritto dello Stato nazista però senza giustificarlo».
Perché Kelsen fu critico verso il processo di Norimberga?
«Perché non esisteva una norma di diritto positivo anteriore ai fatti. È la giustizia del vincitore a imporsi. Il potere condiziona la realtà del diritto».
Venendo a oggi. Kelsen sarebbe accusato di giustificare il regime talebano in Afghanistan, là dove la sharia è il diritto positivo.
«A mancare è l’appiglio formale. Le norme coraniche non si inseriscono in un sistema piramidale. Il testo fondante, il Corano, non è giuridico, contiene indicazioni giuridicamente rilevanti solo in misura minima.
Quella di Kelsen è una teoria del diritto europeo continentale, a misura dell’era industriale».
Sottraendo il diritto all’ideologia, Kelsen salvaguarda la scientificità di opere come il codice penale Rocco, risalente al Ventennio.
«E come il Codice civile del 1942.
L’uno e l’altro ancora vivi. Due pregevoli costruzioni giuridiche».
Settecentocinquanta anni fa moriva Dante. Il primo saggio di Kelsen verte su “De Monarchia”.
Che cosa lo accomuna all’Alighieri, alla sua visione statuale?
«Una sicura suggestione: l’impero absburgico come stato nazionale, nell’immaginario epigono del Sacro romano impero della nazione tedesca. Un solco in cui lievita la stessa idea contemporanea dell’Europa: Schumann, Adenauer, De Gasperi, i padri fondatori, hanno in comune il medesimo humus germanico».
Kelsen si è occupato in due saggi (1920-1925) della democrazia parlamentare, della sua crisi. Passa il tempo, la questione resta. Come suggerirebbe di affrontarla?
«Invitava a contemperare la rappresentanza politica con interventi correttivi o integrativi di democrazia diretta. Come il referendum. La sua concezione della democrazia parlamentare risalta nella Costituzione austriaca del 1920, che lo ebbe tra i suoi autori. Inoltre è l’artefice della Corte costituzionale moderna, come quella italiana: essa elimina le norme in contrasto fra loro, tutela cioè il funzionamento della piramide normativa».
La fortuna italiana di Kelsen è torinese.
«Fu Gioele Solari a orientare verso la Germania Treves e Bobbio. Non dimenticando che a Torino, nell’800, era in cattedra Pietro Luigi Albini, pioniere della filosofia del diritto».
Singolare Torino. Vi insegnarono i capifila del giuspositivismo e del giusnaturalismo, rispettivamente Norberto Bobbio e Alessandro Passerin d’Entrèves. Lei in che senso può definirsi giusnaturalista?
«Per il mio ideale di società, dove cardinali sono i diritti sociali, l’articolo 1 della Costituzione.
Kelsenianamente».
https://www.repubblica.it/