Guido Rossi e la lotta ai vizi del capitalismo.

È MORTO A 86 ANNI. MORATTI: “UN FARO”.
Se n’è andato a 86 anni il fustigatore implacabile dei vizi del capitalismo italiano. Con Guido Rossi perdiamo la coscienza critica che vide in anticipo il declino di una borghesia industriale.
Se n’è andato a 86 anni il fustigatore implacabile dei vizi del capitalismo italiano. Con Guido Rossi perdiamo la coscienza critica che vide in anticipo il declino di una borghesia industriale, di una classe dirigente, ne denunciò la povertà d’idee e di coraggio, l’affarismo gretto, i patti scellerati con la politica, infine l’inevitabile resa davanti all’avanzata straniera. Anche su quest’ultima Rossi non si faceva illusioni: proprio perché non era un provinciale, non mitizzava né il liberismo americano né il modello renano-germanico né il colbertismo francese. Ma di osservatori acuti e lucidi ne abbiamo avuti altri; Rossi non parlava dall’esterno, aggiungeva il suo ruolo unico come protagonista attivo di tante vicende della nostra economia. Si sporcava le mani, provava a fare le cose, non solo a criticare l’esistente. La sua vita è abbastanza eccezionale dall’inizio: le origini umili, la conquista di un Master ad Harvard in un’epoca (la ricostruzione post-bellica degli anni Cinquanta) in cui era davvero un traguardo inusuale per un italiano. Harvard gli lascia per tutta la vita una curiosità globale, e un’esposizione verso culture giuridiche più avanzate. I suoi pensatori di riferimento si chiamano John Rawls, Karl Popper. Accetta anche l’impegno politico, da senatore indipendente di sinistra, per far passare riforme dei mercati e l’antitrust. È il “padre” della Consob. Viene chiamato a svolgere un ruolo-chiave, di garante e di guida, nel risanamento di Ferfin-Montedison e nella privatizzazione di Telecom. Quasi ogni volta con scontri memorabili contro resistenze, interessi costituiti. Il centro-sinistra, al quale è legato, lo delude regolarmente.
Molto prima che emerga l’ondata dell’anti-politica lui avverte l’inadeguatezza del riformismo italiano. Sono tre le grandi occasioni mancate: la stagione delle privatizzazioni, la costruzione del mercato unico, l’aggancio all’euro.
Ogni volta Rossi vede aprirsi una divaricazione tremenda, tra quello che l’Italia dovrebbe fare per usare quegli appuntamenti al fine di modernizzarsi, e lo scarno bilancio dei cambiamenti reali. Maneggia la scrittura con eleganza e cattiveria come un altro Rossi, Ernesto, quello del Manifesto di Ventotene e de “I Padroni del vapore”. Anche Guido conia espressioni che entrano nel lessico nazionale: capitalismo opaco, capitalismo senza capitali (nel senso che non li vuole investire). Per la sua competenza di avvocato e giurista, però, gli stessi bersagli delle sue accuse lo rispettano e hanno bisogno di lui. Lo consultano personaggi come Enrico Cuccia e Gianni Agnelli, proprio quel “salotto buono” che lui considera un emblema del capitalismo italico, asfittico e autoreferenziale. Non sopporta le costruzioni barocche con cui la finanza italiana puntella i suoi equilibri: strutture piramidali di holding che controllano a cascata altre società, “scatole cinesi”, partecipazioni incrociate. Fra i danni di quegli arrangiamenti che congelano gli assetti azionari: si dissocia il potere dalla responsabilità, il comando si separa dal rischio. I padroni comandano coi soldi degli altri.
Si batte contro la normalizzazione del falso in bilancio. È agli antipodi di Silvio Berlusconi, difende il pool di Mani Pulite, però avverte che il conflitto d’interessi non nasce solo quando il padrone della Fininvest arriva a Palazzo Chigi. Ecco con quanta durezza ne scrive in una rubrica firmata Devil, sull’ Espresso: «Il conflitto d’interessi costituisce uno dei mali endemici che colpiscono quasi tutte le attività economiche e politiche del nostro paese, nel quale perseguire i propri interessi privati è reputato scopo più nobile che non il sacrificarli ai superiori fini pubblici. Una rilassatezza eccessiva nei costumi che accompagnano quelle attività ha indotto la maggior parte dei cittadini a giustificarlo e a considerarlo addirittura fenomeno naturale e difficilmente estirpabile». È un passaggio profetico perché anticipa le cause profonde di tutti i populismi: l’establishment, le classi dirigenti, hanno alimentato per decenni l’esasperazione. Il resto lo fa la debolezza della società civile, altra malattia italiana che preoccupava Rossi, e allora ecco le fughe in avanti: verso l’Uomo Forte, le scorciatoie del decisionismo.
Dalla storia degli Stati Uniti, lui aveva assorbito il nesso tra mercati concorrenziali e democrazia. Quando sul finire dell’Ottocento, grazie alla spinta del Progressive movement, l’America si dota della sua prima legislazione antitrust (Sherman Act), lo fa non solo perché crede nei benefici di una vera competizione. È in gioco la democrazia: l’eccessiva concentrazione di potere economico prima o poi è fatale per la salute del sistema politico. Questa lezione è più attuale che mai nell’èra dei Padroni della Rete, con l’abnorme cumulo di potere nelle mani di cinque sorelle digitali, Apple Google Amazon Facebook Microsoft. Ma anche in Europa il problema si pone in modo acuto. Non nel settore delle tecnologie digitali dove il Vecchio continente è una colonia americana. In altri ambiti però Rossi ha visto il passaggio dall’angusta dimensione italica a quella europea come un’ennesima occasione mancata. Con Germania e Francia che “vestono di Europa” i loro appetiti e prepotenze nazionali, proiettano su scala continentale i vecchi vizi del dirigismo e del mercantilismo. L’Italia che torna ad essere terra di conquista, per mancanza di un establishment moderno, aperto, competitivo. Nel frattempo all’èra dei padroni che comandavano coi soldi degli altri lui ha visto succedersi quella dei “capi-azienda”, come definisce i top manager: e in quella nuova oligarchia ha avvistato gli stessi difetti antichi, avidità e strapotere dissociati da un’etica della responsabilità.
Guido Rossi è stato un milanese appassionato della sua città. La voleva metropoli europea, ne conosceva a fondo la storia. Gli era stato proposto di candidarsi a sindaco (2001). Aveva preferito l’insegnamento: filosofia del diritto.
A cena a casa sua e di Francesca s’incontravano spesso due altri illustri milanesi (di adozione, loro) scomparsi, Umberto Eco e Gae Aulenti. Profondamente laico, ebbe un rapporto intenso col cardinale Carlo Maria Martini. Del quale Guido Rossi scrisse: «Non si è mai lasciato omologare, non ha frequentato salotti, ha sempre mantenuto le distanze». E un po’ descriveva se stesso.
LA VITA SECONDO PRESIDENTE DELLA CONSOB Fra i massimi esperti italiani di diritto societario, Rossi è stato anche il secondo presidente della Consob (dopo il quinquennio d’esordio di Gastone Miconi) dal 15 febbraio 1981 al 10 agosto 1982 DUE VOLTE PRESIDENTE DI TELECOM Avvocato e giurista, è stato presidente di Telecom Italia in due occasioni diverse: la prima nomina nel 1997, ha diretto la privatizzazione, e la seconda nel settembre del 2006 (sopra con l’ad Riccardo Ruggiero) SENATORE E AVVOCAT0 Nel 1987 fu eletto senatore per la Sinistra Indipendente. Come avvocato, fu uno dei legali della banca olandese Abn-Amro e di Cesare Geronzi nei processi Cirio e Parmalat. È stato consulente di Fiat COMMISSARIO STRAORDINARIO DELLA FGCI Ai tempi dello scandalo di Calciopoli del 2006, anno dell’ultimo Mondiale di calcio vinto dalla nazionale italiana con ct Marcello Lippi, Guido Rossi venne nominato commissario straordinario della Fgci.

La Repubblica –