Tutti i tavoli governativi, che dovrebbero affrontare un problema per risolverlo, si aprono a ripetizione senza mai chiudersi. La questione della prescrizione è sospesa, il progetto di abolizione dei decreti di sicurezza salviniani è rinviato, l’ambiziosa agenda 2023 che il premier vuole scrivere per ipotecare lo spazio della legislatura non riesce ad aprire la prima pagina, sulle nomine pubbliche si annuncia battaglia, alla Rai ancora e sempre sovranista e filoleghista non si riesce nemmeno a cambiare canale. Lo spazio vuoto è inevitabilmente riempito dalle spinte egoistiche e centrifughe dei due partiti in maggiore difficoltà elettorale, M5S e Italia viva, che cercano nell’agitazione permanente ciò che non riescono a trovare nella politica mancante, muovendosi ogni volta sullo spazio di confine tra maggioranza e opposizione, sperando di lucrare spiccioli di consenso dai due mondi contrapposti.
Al centro dello schieramento, come una moderna Democrazia cristiana, il Pd porta intero il peso della responsabilità del governo, senza incassarne il dividendo. Dovrebbe strappare in avanti, imponendo la sua egemonia culturale, ma è costretto a frenare, tamponando i buchi che si aprono qua e là quotidianamente nella maggioranza. Dovrebbe far capire agli alleati che in Emilia ha giocato – e vinto – da solo la vera partita con Salvini, prendendo la guida politica della coalizione, ma deve mediare, compensare, riequilibrare se vuole che la barca vada avanti. Dovrebbe pretendere che l’alleanza si dia finalmente un orizzonte culturale, una bussola politica, una mappa di programma: ma è costretto a proteggere il minimo comun denominatore che tiene insieme forze troppo diverse tra loro, e non riesce ad andare oltre.
Eppure la questione è semplice. Il Paese non può vivere in amministrazione controllata, con una sospensione della politica che si illude di sospendere il tempo, rinviando le scelte. Un Paese in apnea. Bisogna che la politica torni in campo, e sieda a capotavola, altrimenti è meglio accettare la sfida di Salvini e andare al voto, con tutti i rischi che questa scelta comporta per l’Italia.
Una chiave per uscire dalla palude è in mano ai Cinque Stelle. Finalmente hanno capito che il congresso – comunque lo si voglia immaginificamente battezzare – è la strada maestra per definire la propria natura e la propria prospettiva, spiegando alla luce del sole la ragione delle scelte, cosa che incredibilmente non è stata fatta con il passaggio di governo, sostituendo Salvini con Zingaretti come si cambia la giacca in un armadio. I grillini devono dire se seguono Grillo, che vuole un’intesa ragionata con la sinistra, o Di Battista con la sua perenne guerriglia anti-istituzionale: su questo devono scontrarsi e contarsi, in modo pubblico e trasparente, selezionando un gruppo dirigente conseguente, nato da una scelta di campo non più equivoca.
Ma anche Renzi è debitore di un congresso alla pubblica opinione. È stato segretario del Pd, quel partito lo ha portato alla presidenza del Consiglio, lui lo ha portato nel socialismo europeo: ed ora? Un uomo di Stato non può permettersi un’ambiguità permanente, puntando a dividere il campo riformista in ogni elezione locale, usando i suoi voti marginali per tenere il governo di cui fa parte costantemente sott’acqua, lasciando intendere che il tanto peggio sarebbe infine per lui (e solo per lui) tanto meglio: perché un’esplosione del quadro politico gli consentirebbe di liberarsi da ogni vecchia eredità vincolante, di uscire dal recinto del centrosinistra e di collocarsi all’incrocio tra una sinistra di lucro, una destra di comodo, un centro di vocazione, scegliendo empiricamente di volta in volta in base al bottino politico e non più agli ideali, come un partito-pirata che batte bandiera nera. Un congresso vero, tra tante performance, aiuterebbe a mettere a fuoco la natura del nuovo partito, a scegliere il campo di gioco, gli alleati e gli avversari, e soprattutto a capire.
Infine, Conte. La situazione dimostra che avere i numeri in Parlamento non basta, se non c’è una maggioranza: sapendo che i cosiddetti “responsabili”, se portano voti, tolgono identità, dunque accrescono il male oscuro di cui soffre il governo. E di conseguenza o il premier si mette a capo di questo processo di ridefinizione culturale dell’alleanza che guida, oppure vedrà consumarsi di giorno in giorno la sua debolezza, perché senza politica non si va avanti.
Deve capirlo anche il Pd, fissando un prezzo politico per la sua responsabilità generale. È basandosi su questa tenuta dei democratici, infatti, che Renzi e Di Maio imbastiscono i loro balli di confine, sul bordo del dentro-fuori. La responsabilità non è gratuita, d’ora in poi va scambiata con scelte di governo nette, con una chiara identità di sinistra, riconoscibile dagli elettori.
Anche perché l’alternativa ha un’identità precisa, con il segno di destra più marcato degli ultimi vent’anni. Basterebbe questo destino per imporre alle forze di governo una scelta radicale e convinta. Ma le scelte nascono soltanto da una chiarezza identitaria. È ora che la maggioranza di governo decida di che sostanza è fatta: la destra lo sappiamo.