Il caso Moro, la terribile sorte del capo della Dc, anzi l’uomo che per quel partito stava per divenire capo di un primo governo di alleanza con il Pci di Berlinguer, è un pezzo di storia che ancora brucia nel nostro paese. Sia per le scelte dei governanti di allora che portarono alla sua uccisione, sia perché la partecipazione di apparati dello stato a quella «operazione» in qualche torbida maniera, sembra oggi una realtà ancora da scoprire e appurare fino in fondo.
LE STESSE lettere dello statista pugliese, quelle che dalla prigionia venivano recapitate fuori da parte delle brigate rosse, nonché il memoriale che con lucidità crudele e disperata egli andava disegnando in quei lunghi giorni del 1978, non sono mai state approfondite: in parte sperdute, in buona parte rinvenute solo casualmente dopo una quindicina d’anni nei lavori di ristrutturazione dell’appartamento/prigione. Oggi probabilmente quei fatti appaiono molto lontani, se non integralmente sconosciuti, ai ragazzi, che certo non le studiano a scuola.
QUELLO che ora Fabrizio Gifuni porta in scena (titolo Con il vostro irridente silenzio, in scena fino a domani con una doppia recita serale aggiunta per le prenotazioni andate tutte esaurite) non si può dire uno spettacolo, almeno non in senso tradizionale.
SOLO, davanti a un leggìo al centro di un quadrato bianco, con in mano quel consistente mazzo di fogli che va leggendo con crescente immedesimazione, l’attore sembra, più che recitare, officiare un rito. Neanche troppo liberatorio, perché anche apprendere verità finora oscurate, o correre con la mente a una ricostruzione «logica» di quanto è accaduto in quei mesi, provoca innanzitutto angoscia, e dolore, oltre che possibile «sorpresa».
In realtà da quella voce che svela il vero volto, i trascorsi e le colpe di una intera classe politica (non solo democristiana) che da decenni governava l’Italia, sale anche la rabbia, e lo sdegno e quasi l’incredulità, mentre le pedine vanno al loro posto sullo scacchiere della politica e su quello dei valori. Mentre non manca la sensazione di paura che può lecitamente serpeggiare in chi non ha mai voluto vedere e capire oltre lo schermo di quelle sbarre: non di piombo, ma di pensiero, anche se «plumbei» resta la definizione della storia per quegli anni. Anni di cospirazione da parte di organi dello stato, di grandi manovre e interessi giganteschi, che con linguaggio semplice ma colto, lucido quanto ficcante, Aldo Moro svela e fa comprendere a chiunque lo voglia stare a sentire, ancora oggi a più di quarant’anni da quegli avvenimenti.
PER FABRIZIO GIFUNI non è solo una grande prova d’attore (come concentrazione e forza di convincimento), ma una performance straordinaria, e anche fisicamente durissima, di come un palcoscenico può diventare il luogo di incontro, conoscenza e maturazione di una comunità. Una vocazione da cui era originariamente nato nella Atene di tanti secoli fa, e che in questo caso torna a guidare chi voglia farsi rabdomante della verità.