Gli altri Anni ’20

bilbao
Rivoluzionari, irriverenti e profetici Al Guggenheim basco torna il decennio che cambiò la storia delle immagini
di Brunella Torresin
Dobbiamo agli anni Venti del Novecento molto più di quanto siamo consapevoli, o disposti ad ammettere. Non ultimo il fragile crinale tra emancipazione e deriva autoritaria, effervescenza sperimentale e massificazione. Dobbiamo loro talmente tanto che il più ambizioso programma europeo di rilancio culturale post pandemia, il ” New European Bauhaus”, si richiama a una scuola e a una visione modernista delle arti, pure e applicate, sviluppate negli anni della Repubblica di Weimar. La mostra che fino al 19 settembre al Guggenheim Bilbao celebra I folli anni Venti ( www. guggenheim- bilbao. eus) nasce con il Kunsthaus di Zurigo, che ne ha ospitato l’esordio l’estate scorsa, ma nel museo basco si è completamente trasformata grazie alla decisione di affidarne la scenografia al regista d’opera e di teatro Calixto Bieito. Non c’è sala in cui le arti visive della pittura, grafica, design, moda, fotografia, architettura, non si fondano alle arti performative, attraverso proiezioni e materiali sonori originali. Restituiscono vita ai fantasmi di sperimentazioni e di tabù infranti, di frenesia e di incombenti tragedie, già saccheggiati da serie televisive di furore, come Babylon Berlin.
Spiega Petra Joos, una delle curatrici con Cathérine Hug, che quegli anni « sono stati un’esplosione di creatività, liberazione erotica, pulsione sessuale e femminismo, ma anche di trauma, di lotta e di economia selvaggia e spietata. Questa è la loro follia».
La mostra si concentra sull’Europa centrale e le sue capitali, Parigi, Zurigo, Vienna, Berlino, ricostruendo gli scambi tra il Dadaismo, la Nuova Oggettività e il Bauhaus. L’ambizione è di isolare e indagare le matrici delle rivoluzioni estetiche e formali non meno che delle rivoluzioni sociali e economiche. Procede dunque per figure chiave di artisti (non meno di una settantina tra giganti e meno noti, Man Ray, Berenice Abbott e Lázló Moholy-Nagy, Dix, Grosz, Hans Richter e Fritz Lang, Walter Gropius, André Breton, Le Corbusier e Brancusi, Christian Schad e Mary Wigman) e passaggi simbolo, che a loro volta trovano eco nel lavoro di alcuni autori contemporanei, come Kader Attia, Thomas Ruff, Hiroshi Sugimoto, Shirana Shahbazi.
La prima è la figura di Fernand Léger e il primo passaggio il superamento del trauma di una guerra e di una pandemia. Nel 1924 Léger, che era rimasto intossicato dai gas a Verdun, realizza un film sperimentale, Ballet mécanique, se non il primo, il più autorevole esempio di cinema non narrativo, che si apre e si chiude con una sagoma di Charlot composta da segmenti geometrici; Charlot cubista è anche il soggetto di un collage esposto alla parete. Il 1924 è altresì l’anno in cui la comunità scientifica internazionale inizia a dividersi sulle leggi della meccanica quantistica, che sconfessano la fisica classica. In una realtà sempre più accelerata e frammentata, scrive Léger che « non vi è mai stata un’epoca così avida di spettacolo come la nostra», una «necessità di distrazione a ogni costo».
La velocità – le automobili, l’automazione, la radio – trasforma il modo di vedere e percepire. Sperimentare è la parola d’ordine ( Josef Albers, «Sperimentare è più importante che studiare » ). Nel 1927 Walter Ruttmann gira il documentario Berlino. La sinfonia della grande città, che Bieito ha voluto proiettato sul soffitto, così che la vertigine del visitatore sia completa, e Fritz Lang traduce in immagini il futuro distopico di Metropolis.
Quattro anni prima Hans Richter aveva realizzato il suo secondo cortometraggio astratto, Ritmo 23, qui esposto con il suo storyboard. Nel 1929 una mostra internazionale organizzata dal Deutscher Werkbund per la prima volta presenta assieme cinema e fotografia: da Stoccarda Film e fotografia farà il giro d’Europa, e approderà in Giappone.
Gli abiti femminili si accorciano e Coco Chanel inventa la petite robe noire, il tubino nero. La sessualità infrange i rigidi recinti della morale borghese e della famiglia patriarcale, con quarant’anni d’anticipo sulla rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. Il numero di artiste è ancora molto limitato, ma I folli anni Venti restituiscono loro spazio e giusta ammirazione: tra esse Warwara Stepanowa, pittrice, grafica, moglie di Alexander Rod?enko, Marianne Ullmann, pittrice, costumista e designer del Cinetismo viennese, Margarete Schütte-Lihotzky, architetta.
In nessun altro luogo dell’arte, come nella danza che verrà detta “espressionista”, il corpo femminile si libera. A Monte Verità, presso Ascona, artisti, filosofi e bohémiens praticano il ritorno alla natura. Tra essi Rudolf von Laban e Suzanne Perrotet, e la loro allieva Mary Wigman, che qui è possibile vedere nel filmato di Hexentanz ( 1926): tutto il teatrodanza dagli anni Settanta è loro debitore. Di Gret Palucca, che fu allieva di Wigman e dal 1924 il soggetto privilegiato della fotografa Charlotte Rudolph, Kandinskij scrisse in rapporto alla propria pittura e Moholy- Nagy la considerava « l’espressione più pura di una nuova cultura della danza».
“Schall und Rauch”, rumore e fumo, è il nome del cabaret di Berlino ( e di una rivista) in cui esordì il giovane Max Reinhardt, prima di divenire l’innovatore e il dominus del teatro tedesco. Lo Schall und Rauch e il Moka Efti a Berlino, le Folies Bergères a Parigi, il Cabaret Voltaire a Zurigo: Calixto Bieito li ricostruisce in una sala consacrata al tema del ” Desiderio”, immersa in una luce rossa, con sequenze di film proiettate sui tavolini e danze sfrenate evocate sulle pareti. Joséphine Baker balla il charleston, e ballate, ballate anche voi: in questa sala è consentito farlo anche ai visitatori.
https://www.repubblica.it › robinson