Non solo c’è una grande differenza tra «accertare le anomalie di un sistema e far saltare il sistema», il punto è che il confine tra l’una e l’altra cosa è sottile. E chi ha il compito di guidare l’inchiesta decisa dal Parlamento non nasconde la sua preoccupazione nei conversari riservati. È uno stato d’animo che accomuna peraltro le massime cariche dello Stato, stupite dal modo in cui la Commissione abbia avviato i lavori, dal fatto che non ci sia stata «alcuna coscienza di causa per quanto ha provocato e per gli effetti che in futuro potrebbero determinare».
Trasformare la commissione in una tribuna, per di più in prossimità delle elezioni, era un rischio. Ed è stato calcolato male. Casini conosce la politica per averla frequentata, vede come agiscono i grillini e ne intuisce il disegno. Non capisce invece quale sia il gioco degli altri grandi partiti, perché continuando a sparare nel mucchio la verità verrebbe inquinata dalla propaganda. Scagli il primo bond chi è senza peccato, è così che andrebbe a finire. E (quasi) nessuno ne uscirebbe vincente.
Sarebbe il «gioco allo sfascio». È un gioco che Casini teme e che è iniziato. Si è palesato davanti ai suoi occhi nei primi passaggi della Commissione, gestiti ma senza condividerli. Si è riprodotto poi nello scontro in ufficio di presidenza, dove Tabacci ha minacciato le dimissioni davanti alla richiesta di ascoltare Zonin e Consoli: «Dovremmo dare un palco a chi ha la responsabilità dei crac delle banche venete?». È una spirale che «senza un gentlemen agreement» potrebbe far oltrepassare il confine tra la verifica delle disfunzioni di un sistema e il default del sistema.
Martedì si tratterà il caso Mps, che ha una grande valenza retrospettiva. Da giorni due funzionari del Parlamento studiano lo status giuridico del presidente della Bce per capire se la Commissione d’inchiesta abbia la facoltà di chiederne l’audizione. In punta di diritto non sembrerebbe possibile, così almeno risulterebbe dai Trattati. Ma il nodo è ancora una volta politico: i partiti chiederebbero di sentire il governatore europeo?
Sia chiaro, nessuno finora ha fatto il nome di Draghi ma questo nome aleggia nel Palazzo fin da quando Renzi propose di istituire l’autorità d’inchiesta, nonostante dal Colle gli fosse stata consigliata maggiore prudenza. «Stai a vedere che andremo a rompere le scatole a chi ha salvato l’Italia dal fallimento in questi anni», disse allora profetico il centrista Cicchitto. «Ognuno si assume le proprie responsabilità», dice adesso Casini, che forse riteneva meno complicata la gestione di una Commissione nei cui riguardi – all’inizio – aveva espresso contrarietà.
L’appello è il limite oltre il quale nel suo ruolo non può spingersi, perché «in parte dipende da me – ha spiegato ai suoi interlocutori – in parte dipende dalle forze politiche»: «E si è visto cosa succede quando le istituzioni vengono usate come terreno di scontro». Ci sarà un motivo, quindi, se ieri il capogruppo del Pd Rosato è intervenuto formalmente a difesa di Draghi, che «ha lavorato con grande capacità alla Bce e che in virtù del suo lavoro a Bankitalia è stato premiato con la nomina» a Francoforte.
Le parole pronunciate dal dirigente dem – non a caso sottoscritte subito dopo da Renzi – sono in realtà un esercizio di equilibrio per non smentire la linea del partito e rassicurare al contempo i vertici istituzionali, intervenuti pesantemente nella vicenda. Sostenere che «chi cita Draghi vuole bloccare la Commissione» e sottolineare che dall’inchiesta sulle banche si vogliono fare emergere «le responsabilità di Bankitalia» è un modo per restare al limite senza però indietreggiare.
Perciò il gioco resta pericoloso, ed è una preoccupazione di cui c’è traccia nei conciliaboli tra ministri democrat al termine della riunione di governo: il tema delle banche verrà tolto o no lunedì dall’agenda della direzione del partito? Quanto a Gentiloni avrà modo di ribadire a Draghi come la pensa, quando oggi lo incontrerà a Milano. La miccia è ancora accesa…
Francesco Verderami