Parigi, caffè Les Deux Magots, 1952. Nato nel 1922 da una famiglia dell’alta borghesia americana, trasferitosi dagli Stati Uniti nella capitale francese per brevi e frequenti soggiorni dalla metà degli anni Quaranta, amico e biografo di Picasso, James Lord incontra per la prima volta Alberto Giacometti.
Poco più di dieci anni dopo, 1964, il facoltoso scrittore e appassionato d’arte ritrova il grande scultore, che gli chiede di posare per lui. Sarebbe bastato solo un pomeriggio. O poco più. Le sedute sarebbero durate al massimo qualche giorno, assicura Giacometti. Che, per realizzare i suoi ritratti, tende a ricorrere a un’antica consuetudine: ama lavorare avendo dinanzi a sé un modello. Lusingato e incuriosito, Lord accetta. Non sa che sta per diventare il protagonista di un’esperienza estenuante. Che racconterà poi in un memoir intitolato Un ritratto di Giacometti (edito nel 1966 e tradotto in italiano nel 2004 da Nottetempo), dal quale è stato tratto il film Final Portrait di Stanley Tucci (in uscita in Italia il prossimo 8 febbraio).
Il libro e il film documentano fedelmente una specie di genesi. Ogni mattina Lord si reca al numero 46 di rue Hippolyte-Maindron. Una grotta con stalattiti e graffiti. Ovunque, sculture incomplete. Alle pareti, disegni. I dialoghi tra la vittima e il carnefice sono scarni. Giacometti (magistralmente interpretato da Geoffrey Rush) invita Lord a mettersi comodo. Gli chiede di non cambiare mai — neanche lievemente — postura. In quell’antro polveroso e disordinato, egli è l’unico padrone. E detta regole cui bisogna attenersi: senza discutere. Giochi di sguardi. Il maestro studia il giovane. Il giovane studia il maestro. Di Lord, Giacometti percepisce subito il lato meno evidente. Quell’elegante ragazzo di buona famiglia nasconde un volto inquietante: è un possibile delinquente o un possibile depravato. Inizia così una tortuosa e labirintica interrogazione intorno a quel corpo e a quella faccia. Che si ripeterà per diciotto lunghe sedute. Ogni giorno il rito si replica. Con minime variazioni.
«Qualcosa a metà tra la meditazione trascendentale e una visita dal barbiere»: in questo modo il critico Martin Gayford ha descritto la tecnica adottata per i suoi ritratti da Lucian Freud, tra i più originali eredi di Giacometti. Il quale, dapprima, definisce i lineamenti della figura attraverso una cartografia di schizzi nervosi stratificati. È come se volesse lasciare muovere la mano senza controllo razionale, assecondando una sorta di vichiano «conosco facendo». Nel corso della sua impresa, l’artista esita, perché teme di allontanarsi dalla visione iniziale. E cancella con rabbia il palinsesto iconografico appena ordito, lasciando il suo «testo» sospeso. Disonesto, bugiardo, nevrotico (come si definisce), dice: «Impossibile dipingere come ti vedo».
Giacometti vuole impadronirsi della sua preda, che non si lascia catturare. Oscilla, perciò, tra la speranza nel trovare una «via di uscita» e l’abisso della sconfitta. A volte, afferma: «Impossibile finire un ritratto. Dovrei abbandonare». È possibile solo rovinare e distruggere quel che si è creato, confessa. Non fare, ma disfare. Sottrarsi alla tentazione di essere appagati. Provare all’infinito, per avvicinarsi all’intenzione iniziale. Nella consapevolezza, però, che la meta ultima sarà sempre mancata. Come chi, giunto a pochi passi dalla vetta di una montagna, si lascia precipitare nel vuoto.
Assistiamo a un’ossessiva ricerca interrotta da tante tentazioni mondane. Frequentazioni di prostitute. Incontri con mercanti. Perversioni coniugali. Intorno a questa vicenda — per molti versi analoga a quella narrata da Paola Caròla in un bel libriccino uscito nel 2011 ( Monsieur Giacometti, vorrei ordinarle il mio busto , edito da Abscondita) — si snodano i momenti di un’amicizia insolita. Le tappe di un viaggio nella frustrazione e nei tormenti sottesi al processo artistico. Un atto irripetibile. A tratti esaltante, a tratti esasperante. Dono? Maledizione?
Siamo all’epilogo. Costretto a tornare negli Stati Uniti, Lord dice a Giacometti che ormai non può più aggiungere né togliere niente a quel ritratto, iscritto dentro un’architettura solida. «Potevamo fare di più, ma abbiamo fatto abbastanza», è la risposta di Giacometti. Il quale, come promesso, regala l’opera al suo amico. Che non incontrerà mai più. In una lettera gli parlerà del desiderio di rivederlo. Per «ricominciare tutto daccapo». Due anni dopo morirà. The final portrait verrà venduto nel 1990 per oltre 20 milioni di dollari.
Il film di Tucci ha qualcosa di consueto, ma possiede anche qualcosa di radicale. Siamo dinanzi a un classico biopic. E, insieme, al racconto di uno stile. Ma anche a una riflessione filosofica sul significato profondo della creazione artistica.
Il regista americano dà vita a un’operazione filologica. È molto fedele la ricostruzione dello studio di Giacometti, basata sulle foto e sui filmati dell’atelier originale. Quasi un co-protagonista del film: lì si svolge buona parte dell’azione. Altrettanto rigorosa è la realizzazione delle sculture e dei quadri: eseguita da quattro artisti-professionisti e «garantita» dalla Fondazione Giacometti.
All’interno di questo contesto si modellano le ansie di Giacometti. Che viene presentato non senza certi abbandoni retorici. Ecco il solito artista maledetto (un Jimi Hendrix o un Jim Morrison dell’arte), con un’esistenza segnata da schizofrenie, da alcolismo, da amori malati. Pur con queste «concessioni», Tucci riesce a far rivivere il vivace clima culturale della Parigi del dopoguerra. E ci fa sentire gli umori e le idee del suo «eroe». L’amore per Cézanne. L’amicizia con Dora Maar, l’amante di Picasso. Le critiche ai cubisti. Il rapporto conflittuale con Picasso, giudicato un ladro di intuizioni altrui. Al formalismo cubista Giacometti contrappone una proposta solitaria, introspettiva, spiritualistica. La sua è una «statuaria negativa», abitata da piccole larve allungate o da corporeità aggrovigliate. Intento a mostrare ciò che resterà quando «ogni apparenza fallace sarà caduta» (come ha scritto Jean Genette), suggerisce visioni perturbanti. Riduce i volti a continenti interiori agitati da emergenze contraddittorie. Consegna individui prigionieri in se stessi, che si contraggono, sembrano sfuggire, quasi disintegrarsi. Personaggi filiformi, dolenti, consunti.
Primitivo del Novecento, Giacometti — come ci dice Final Portrait — non giunge mai a un approdo. Ogni volta ricomincia. Inizia, si ferma, distrugge, poi inizia di nuovo. Così mette al mondo immagini belle, che subito sfigura, de-figura, aggredisce, rende ignote a se stesse. È quel che accade nelle sculture, nei quadri e nei disegni. Capitoli di un’ostinata avventura poetica, che potrebbe essere interpretata come disperata ricerca dell’assoluto. Una sfida impossibile, prometeica. Sulla quale sembra allungarsi l’ombra di Michelangelo, che aveva scelto di lasciare «non-finite» alcune sue sculture, per non aggiungere «rifinitezza» a un pensiero figurativo già implicitamente maturo nel blocco di marmo.
In alcune pagine del suo libro, Lord ricorda come Giacometti non si stancasse mai di ripetere che un’opera d’arte non può mai dirsi finita. Semplicemente, la si interrompe o la si abbandona. Qualche volta, per ragioni contingenti, la si espone o la si vende. E, tuttavia, quell’opera non raggiungerà mai lo statuto privilegiato della compiutezza. Perché, in fondo, sculture e quadri, come ha osservato Giorgio Agamben, non sono altro che frammenti provvisori di un processo immaginario infinito.
A differenza di Picasso — che tende ad assecondare un irrefrenabile furore — Giacometti pensa il suo mestiere come uno strenuo tentativo per frenare l’impulso cieco e immediato al «fare». La creazione, sembra dire, non è solo disinvolta «potenza-di», ma soprattutto «potenza-di-non». Non ebbrezza. Ma resistenza all’agire. Dubbio. Negazione. Tremore. Ripensamento continuo. «Impossibile finire un ritratto», ripete Giacometti. Forse memore di quel che aveva scritto Dante: «L’artista/ ch’a l’abito de l’arte ha man che trema».