«Anche quando Rosselli non convince perché ti pare contraddittorio o incompleto, anche allora soffri delle sue sofferenze e gioisci delle sue gioie. E ti senti contento d’avere un’anima dove risuona l’eco di una parola calda, commossa, fraterna».
«Non è più tempo né di anatemi né di apologie». Così scriveva Norberto Bobbio nella sua introduzione a Socialismo liberale, l’opera più nota di Carlo Rosselli (1899-1937). Gaetano Pecora ha raccolto questo monito e, senza preconcette avversioni (ma anche senza monumentalità celebrative), ha voluto fare le giuste parti sul conto di Rosselli, di cui proprio nel 2017 cade l’ottantesimo della morte, avvenuta in Francia per mano di sicari fascisti. E così, con il piglio di una conversazione diretta, immediata – leale, si potrebbe dire – ne ha registrato gli attivi ma non ne ha dimenticato i passivi. Dove per «attivi» s’intende anzitutto l’idea – carissima alla sensibilità di Rosselli – secondo cui o il socialismo è la prosecuzione del liberalismo, o non è (e si riduce allora a malinconico sogno di burocrati). E per «passivi», invece, vanno intesi tutti gli scompensi e tutte le ombre che Rosselli fece cadere proprio sul guizzo di questa sua felice intuizione. Con la conseguenza che, talvolta, il lettore è costretto a bilanciarsi su pagine che non fanno centro tra loro e che qualche volta si sciupano l’una sull’altra. Il tutto però accompagnato dalla convinzione che Rosselli poté toccare il segno o mancarlo. Ma che anche quando lo mancò e lasciava una mezz’ombra ambigua dietro di sé, anche allora egli saliva sempre in un’atmosfera superiore dove respirava un’aria più pura e meglio ossigenata. Fosse solo per questo, il suo nome non deve cadere dalla nostra memoria. Il libro di Pecora aiuta a mantenercelo.