La donna si è rivolta alla Postale. «Anche lui ha capito: chi sbaglia paga e impara»
«Non ho voluto far finta di niente, ho denunciato. Solo così posso insegnare davvero a mio figlio che nella vita si sbaglia, si paga e si impara». Maria (nome di fantasia) è una mamma della provincia di Lucca che, dopo aver trovato «foto raccapriccianti di bambini» sul cellulare di suo figlio 13enne ha portato tutto alla polizia Postale e dato avvio all’indagine su un giro di pedopornografia online.
Non ha avuto la minima esitazione a denunciare?
«No. Io amo moltissimo mio figlio e sapevo che solo così si potevano fermare questi abusi. La denuncia l’abbiamo scritta insieme, seduti a tavolino, quando si è reso conto di quello che stava succedendo».
Quando si è accorta che qualcosa non andava?
«Un segnale preciso non c’è stato. Mio figlio era in quella fase in cui i ragazzini iniziano a cambiare, a parlare di meno con gli adulti. Lo vedevo spesso al cellulare, quando mi avvicinavo spegneva lo schermo. Pensavo che stesse scrivendo a una fidanzatina. E invece ho scoperto l’orrore: l’incubo peggiore per ogni genitore».
Come ha trovato le foto?
«Un giorno, era dicembre scorso, gli ho detto: “Dammi il telefonino, voglio controllarlo”. Lui me lo ha allungato senza protestare. E ho trovato qualche sticker e un paio di scatti abominevoli: mi si è gelato il sangue. Ho chiuso tutto, non ce la facevo. Gli ho detto: “Ma ti rendi conto di cosa sono queste?”. Lui ha risposto che era un gioco e che lo facevano tutti i suoi amici».
Un gioco?
«Non capiva che erano foto di bambini veri, abusi reali. Lui li vedeva come semplici meme e li usava come emoticon. “Ma sono piccoli, avranno al massimo la tua età”, ho spiegato. Lui non sapeva cosa rispondere. Il giorno dopo è crollato e ha avuto un attacco di panico. E siamo andati a denunciare, insieme».
In famiglia parlavate di pedofilia e dei pericoli del web?
Un gioco
«Non capiva che erano foto di bambini veri, abusi reali. Lui li usava come delle emoticon»
«Sì. io poi ho sempre avuto il terrore: quando era piccolo, al parco, ero sempre in allerta per paura che fosse avvicinato da qualche estraneo. Gli ripetevo di non fidarsi, soprattutto su internet. Lui pensava fossi esagerata. E invece…».
E invece è caduto nella trappola.
«Purtroppo sì. Abbiamo ricostruito insieme come è andata e sembra la storia di Hänsel e Gretel: bricioline sparse sulla rete, sui social, nelle chat che i bambini seguono pensando di essere al sicuro. Lui cercava qualche meme ed è entrato su Instagram. Ha cliccato su un link, e poi su un altro fino ad arrivare a una chat su Telegram in cui venivano scambiate queste foto tremende di bambini. Ti chiedevano di diffonderle e, per sfida, di mandare le tue».
Il meccanismo delle reti pedofile.
«Dietro tutto questo ci sono delinquenti adulti che sfruttano i bambini. E sono esperti nel superare tutti i filtri che noi genitori pensiamo possano bastare. Io, per esempio avevo messo password, bloccato app e controllavo spesso WhatsApp. Ma non è bastato».
Cosa potrebbe aiutare i ragazzi?
«Di questi pericoli si dovrebbe parlare di più a scuola, in palestra, in famiglia, ovunque. Dobbiamo renderli più consapevoli, meno influenzabili. Noi adulti abbiamo delle responsabilità: i nostri riti di passaggio sono stati il primo bacio o andare al cinema da soli. Loro, invece, comunicano su chat e fanno sfide online. Abbiamo cambiato il mondo e ora le conseguenze le stanno pagando i ragazzi».
Come sta adesso suo figlio?
«Si sente liberato. Sta meglio, segue un percorso con una neuropsichiatra infantile, ma la cosa che lo sta aiutando di più è poter collaborare con la Polizia Postale. Li devo ringraziare: ci sono stati accanto. Alla fine di tutto andrò con mio figlio in un centro che si occupa di questi problemi: voglio che comprenda attraverso l’esperienza diretta».
La domanda più grande: si è chiesta perché lo ha fatto?
«Ce l’ho sempre in testa: perché, perché, perché? Da genitori siamo abituati a chiederci dove abbiamo sbagliato. La risposta non ce l’ho. So solo che non mi sono mai pentita di aver denunciato anche se le conseguenze sono pesanti: probabilmente ci sarà un processo, abbiamo assunto un legale. Però l’importante è che quello che abbiamo fatto servirà ad aiutare altri ragazzini e altre famiglie. E servirà a mio figlio per comprendere che non si può essere complici, seppur inconsapevoli, di queste cose».