Giuliano Amato è nel suo studio alla Corte costituzionale, vista Quirinale. In queste settimane in cui il suo nome è stato al centro delle cronache ha taciuto. Due anni fa si sfogò con il Corriere : «Ho visto il mio curriculum, lo specchio di una vita, addotto a esempio di ciò che si deve distruggere». Stavolta il suo stato d’animo è molto diverso. «Nella corsa del Quirinale certo che mi interessava il risultato — dice —. Ma mi interessava in primo luogo cancellare le brutture ingiuste su di me che tanto avevano danneggiato la mia immagine: il divoratore di pensioni, il cumulatore di incarichi retribuiti, l’uomo nato e cresciuto nel Palazzo; detto da quarantenni che ci stanno da vent’anni; mentre io ci sono entrato quando ne avevo 45, dopo aver fatto tutta la mia carriera universitaria. La verità questa volta è venuta fuori. La cancellazione non è stata integrale; ma io ho percepito di aver recuperato me stesso. Forse sono meno popolare di altri; certo non sono impopolare, e me ne accorgo quando cammino per la strada. In più questa volta c’è stato chi, come Bersani, ha parlato esplicitamente del tema per respingerlo, e gliene sono grato. Il che tra l’altro porta a un’altra constatazione: nella corsa io non ero il candidato figlio illegittimo del patto del Nazareno. Ero un candidato in cui si riconoscevano parti politiche assai diverse tra loro, il che è un’altra cosa, a cui la Costituzione non è certo ostile, visto che il presidente lo vuole rappresentante dell’unità nazionale. Quindi sono pago così».
Neppure a chiedergli di Renzi viene fuori una polemica: «Renzi ha fatto una scelta che stava nel novero delle scelte che io posso considerare giuste da parte sua — risponde Amato —. Io sono abituato fin da quando ho la ragione a usarla per capire le ragioni degli altri. Se non sono ragioni, non le giustifico. In questo caso erano ragioni. Renzi ha comunque scelto una persona del centrosinistra. Io continuo la mia vita di giudice costituzionale, che mi impedisce giustamente di occuparmi di politica ma non del futuro del mio Paese né di quello dell’Europa. Del resto alla Corte siamo parte attiva dell’Europa che c’è: l’Europa delle Corti ormai legate in un’unica rete, da cui esce una giurisprudenza sempre più armonizzata. E sento con orgoglio tutti i benefici della civiltà che abbiamo costruito: nel processo, nei rapporti familiari, nei diritti di libertà. Ma non possiamo cullarci in questi allori. Al contrario».
Racconta Amato di aver riletto in questi giorni le lezioni che lo storico francese Lucien Febvre tenne tra il ‘44 e il ‘45. «Febvre scriveva: “Non ignorate la storia, se la si ignora si vendica”. E la storia, aggiungeva, “ha depositato al fondo di ciascuno di noi fermenti di odio e di rancori che avranno bisogno di decenni per essere cancellati”. Io avevo pensato che avessimo sconfitto il nazionalismo in questi decenni, che con quel grande atto di Francia e Germania che davanti ai morti della Seconda guerra mondiale si erano scambiate carbone e acciaio per non farne più ragione di guerra avessimo suggellato il futuro dell’integrazione europea. Certo ne abbiamo fatta tanta di integrazione; ma oggi siamo di nuovo alle prese con i nazionalismi non domati e con i rancori non sopiti di cui parlava Febvre. Il paradosso è che l’antidoto sarebbe rafforzare il rapporto fra i cittadini e le istituzioni europee, dotando queste di competenze che li toccano davvero, come quella fiscale; ma l’atteggiamento verso l’Europa che oggi prevale è l’ostacolo all’uso dell’antidoto. Di qua la mia convinzione che, per cominciare davvero, l’Europa deve mettersi di fretta a investire nei suoi cittadini. Non possiamo pretendere dai nostri leader che abbiano il coraggio catartico necessario per l’integrazione; possiamo pretendere che lavorino sulla generazione Erasmus, che è la meno toccata da quei rancori, che esiste, che può essere allargata, che può avere dall’Europa una formazione anche specialistica in modo da trovare lavoro; che sia creato un fondo europeo per l’occupazione; che le professioni diventino europee. Non si tratta di lavorare sulle istituzioni, ma di lavorare sui cittadini».
Qui la riflessione di Amato incrocia il discorso di insediamento del presidente: «Sergio Mattarella ha detto due cose secondo me fondamentali. La prima è che la democrazia non è mai una conquista definitiva. Proprio l’altro ieri ho fatto a Grosseto una lezione sul ‘900 agli studenti di scuola media. Pensi che mia moglie mi ha detto: “Giuliano è meglio così, tu sei te stesso nel fare queste cose”. Ai ragazzi ho illustrato quel secolo nato su aspettative di progresso senza fine, il cinema la locomotiva l’elettricità, nel corso del quale, proprio in ragione del cambiamento che stava prendendo corpo, si è avuto uno scontro di faglie e quindi, come ha scritto Claudio Magris, “grovigli di emancipazione e regressione” che ci hanno dato il bene e il male, la democrazia e il nazismo, i diritti e i lager, la scienza che ci guarisce e la scienza che inventa l’ordigno nucleare, il capitalismo che crea i diritti sociali e poi esplode negli anni 30. Ne caviamo che noi abbiamo trovato delle soluzioni nel XX secolo, ma queste soluzioni non sono mai per sempre. Siamo di nuovo alle prese con una crisi esplosiva del capitalismo, abbiamo Ebola, abbiamo le ostilità che nascono tra noi e chi emigra da noi. Qui viene la seconda cosa fondamentale detta da Sergio: rimettere al centro il futuro, non con generiche esortazioni ma mobilitando le energie. È giustissimo questo. Da mesi insisto sul fatto che il bandolo della matassa italiana è nella qualità oggi troppo spesso scadente della formazione, in particolare di quella universitaria. Oggi l’innovazione, la lampadina, non si accende nella testa del cugino Archimede, si accende nella testa di chi ha accumulato sufficiente conoscenza per andare più in là; ma senza l’accumulo la lampadina resta spenta. Troppi dei nostri studenti desiderosi di imparare finiscono in università ridotte a esamifici, dove discipline che dovrebbero essere insegnate per un anno hanno a disposizioni semestri che diventano bimestri».
Amato fa riferimento a un libro di Stiglitz non ancora tradotto in Italia, Creating a learning society , creare una società che impara: «Avendo dentro una conoscenza che oggi troppo spesso ci manca, saremmo in grado di cambiare la nostra agenda, di accorgerci del mondo in cui viviamo; un mondo nel quale dovremo nutrire tre miliardi di esseri umani in più, e l’agricoltura sostenibile sarà una straordinaria risorsa del futuro e anche nostra. Dovremo accorgerci che l’onda crescente degli anziani non è necessariamente un costo, non perché gli anziani sono una risorsa retorica ma perché buona parte delle nostre pensioni possono diventare i redditi degli altri; pensi alle case per anziani affidati a giovani motivati e preparati. E poi noi oggi dobbiamo ricostruire l’Italia. Mi piangeva il cuore nel vedere il sindaco di Trino Vercellese che faceva vedere al tg la casa di campagna di Cavour. Questo povero sindaco l’ha comprata ma non ha i soldi per salvarla, e col cuore straziato mostrava il disfacimento dei muri, il caminetto ormai irriconoscibile. La casa dell’uomo che ha costruito l’Italia sta cadendo in mille pezzi. Ma i nostri giovani, riproiettandoli sul Paese e proiettandoli sul resto del mondo, possono fare moltissime cose. Mia nipote ha studiato antropologia sanitaria, che le permette di lavorare qui o in Africa o in Asia; e ovunque lo faccia troverebbe se stessa e il suo lavoro. In termini industriali, noi che siamo così bravi con le energie rinnovabili possiamo trovare noi stessi e il nostro lavoro in quei tre quarti dell’Africa che attendono di avere la luce». Il punto, secondo Amato, è «cambiare l’agenda, smetterla di arrotolarci nei nostri guai. Lo stesso Febvre, pure così realista, chiude con una bellissima poesia di Charles Peguy: “La piccola speranza avanza tra le due sorelle maggiori e su di lei nessuno volge lo sguardo. La piccola, quella che va ancora a scuola, ama credere che siano le due grandi a portarsi dietro la piccola per mano. Ciechi che sono a non veder invece che è lei al centro a spingere le due sorelle maggiori”. A me è piaciuta tantissimo l’idea di questa speranza, che è piccola, ma in realtà è lei che guida i più grandi e li porta avanti. Se non ci fosse lei, i grandi starebbero fermi».