«È stata la mano di Dio», nel canto ritrovato della città, tra lo scherzo e il dolore

Cominciamo dalla fine, quando, sui titoli di coda parte struggente Pino Daniele con Napule è mille culture, Napule è mille paure. La canzone prosegue e mentre Pino canta riaffiorano molte delle cose che Paolo Sorrentino, ci ha fatto vedere della sua città e della sua famiglia. Già, perché Sorrentino per È stata la mano di Dio, primo film italiano in concorso, è tornato a girare a Napoli. Ha lasciato Andreotti, Berlusconi, papi e gambardelli. Per tornare a casa.

Ma proprio a casa perché si tratta della sua storia personale anche se il nome del protagonista è Fabietto Schisa. La storia, vera, di Sorrentino è nota: il 5 aprile 1987, tifoso del Napoli di Maradona, il sedicenne Paolo era finalmente riuscito a convincere il padre a lasciarlo andare in trasferta, Empoli-Napoli, mentre i genitori erano andati nella casetta di Roccaraso dove morirono per le esalazioni di monossido di carbonio.

Paolo ha sempre affermato che Maradona gli aveva salvato la vita, visto che avrebbe dovuto essere coi genitori, e ancora quando ha ricevuto l’Oscar tra i ringraziamenti c’era Diego. Ma un film non è una ricostruzione pedissequa di quanto è davvero successo. Ecco allora la frastornante e debordante famiglia Schisa alle prese con una estroversione fantastica, esagerata, dall’inizio, l’incontro con San Gennaro, al bagno collettivo sotto la casa di Eduardo, dagli scherzi della madre, alla sorella perennemente chiusa in bagno, contrabbandieri, mignotte e sceicchi, zie e zii tutti affettuosamente sopra le righe chi perché sovrappeso, chi perché truffatore, chi perché violento, tutti in grado di strappare sorrisi con battute micidiali in grado di stroncare interlocutori e buon gusto. Sullo sfondo poi c’è qualcosa che affiora, non solo la fascinazione del solitario Fabietto per le donne ancora da conoscere e per la vita ancora da assaporare, no, Paolo piazza nel suo racconto tre registi: Fellini che a Napoli fa un provino cui partecipa il fratello maggiore, Antonio Capuano che dà scorbutiche ma geniali indicazioni esistenziali-professionali e la videocassetta di C’era una volta in America di Sergio Leone, il suo film più amato.

SU QUESTA impalcatura che abbandona le ridondanze e il barocco dei suoi ultimi film, Sorrentino ritrova se stesso e la sua anima più autentica, più vera, quella di un ragazzo cresciuto a Napoli, una Napoli diversa da quella di oggi, ma appassionata e appassionante (detestata però dalla vicina altoatesina), lasciata solo per quel treno che lo porta a Roma dove senza alcuna tradizione famigliare intraprenderà la carriera che poi tutti sappiamo. La mano di Dio è proprio quella di Maradona che castiga l’imperialismo inglese con un gol mondiale, magnifico e truffaldino, bissato da uno slalom geniale finito in goal, e che ha determinato anche il destino di Paolo. Lo sottolinea uno zio.

Ma c’è di più in questo racconto dalle fidejussioni del Banco di Napoli per comprare Diego alle immagini del mondiale, dello scudetto e dell’allenamento di Maradona sulle punizioni come lezione di vita: la perseveranza.
Dopo oltre trenta anni, era giunta l’ora di trasformare una vicenda personale e dolorosa in momento da condividere con gli altri, anche per liberarsi da quel grumo di sentimenti laceranti.

L’ELEMENTO vincente del film sta proprio in questa ritrovata semplicità di racconto che segue l’ossatura della realtà, ma si riempie di muscoli e nervi e sangue per restituire un momento magico per una città e per il protagonista che però vive anche la devastazione di quell’essere diventato improvvisamente orfano. E questi due mondi convivono e convincono. Anche grazie alla carrellata di magnifici interpreti, Toni Servillo, Renato Carpentieri, Luisa Ranieri, che non hanno bisogno di aggettivi, mentre Teresa Saponangelo si rivela sempre più brava nel ruolo di innamorata e tradita, oltre che madre del sorprendente Filippo Scotti, Fabio.

 

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