……e poi venne il tempo dei Bardi e dei Peruzzi.

 

Il fallimento della ‘Gran Tavola’, consumatosi ai primordi del Trecento, ebbe una vastissima risonanza a livello internazionale, non solo per le personalità coinvolte nel ‘mal affaire’ e per le somme di denaro bruciate in pochi decenni, ma anche per le ricadute che si registrarono nel sistema economico-finanziario senese (benché all’epoca i rischi di ‘contagio’ fossero minori). I discendenti dei Bonsignori riuscirono comunque a saldare ogni debito attorno al 1353, con transazioni che ne salassarono il portafoglio, ma che permisero loro di uscirne con l’onore integro (parola che, allora, aveva ancora un suo valore) e di stornare da Siena lo spettro della scomunica papale, che avrebbe avuto conseguenze ancora più gravi sul piano politico-istituzionale, giacché essere colpiti da tale pena significava la morte sociale ed essere esclusi ‘tout court’ dal consorzio umano. Altri grandi banchieri senesi, come i Piccolomini, i Tolomei, i Salimbeni, riusciranno col tempo ad imporsi e a rimpiazzare i Bonsignori, anche in maniera duratura, ma senza assurgere al livello di Orlando e della ‘Gran Tavola’ nel momento del suo massimo splendore.

Presto venne il tempo delle banche fiorentine e con esso il tempo dei Bardi e dei Peruzzi. Ai primi del Trecento Firenze era diventata il cuore pulsante dell’economia italiana, nonché il motore della finanza mondiale (in senso letterale, visto che il Nuovo Mondo era di là da venire), svolgendo un ruolo che può essere paragonato a quello oggi assolto dalla ‘Banca Centrale Europea’. Al vertice di questo sistema stavano le famiglie dei Bardi e dei Peruzzi, che reggevano le redini delle più importanti associazioni bancarie del momento, infiltrate con una rete capillare su tutta Europa e sulle sponde del Mediterraneo, non esclusa la Santa Sede, di cui erano riusciti a monopolizzare le finanze dopo l’uscita di scena dei Bonsignori. La famiglia dei Bardi era essenzialmente composta da ‘parvenus’ arrivati dalle campagne e inurbatisi duecento anni prima: il membro più illustre del ‘casato’ era stato tale Bartolo, priore di Firenze nel 1282. Molto più ammanicata era la famiglia dei Peruzzi, con un novero di 54 antenati priori, giacché il loro ingresso nella Firenze ‘bene’ risaliva al sec. XI. La sola famiglia dei Bardi poteva vantare il possesso di 25 filiali, in Italia e all’estero, con avamposti dislocati a Tunisi, Parigi, Costantinopoli e Siviglia (nella filiale di Napoli per esempio lavorò il padre del Boccaccio); i Peruzzi erano invece insediati a Londra, Maiorca, Bruges e Cipro. Questa vera e propria ‘holding’ commerciale divenne ben presto una multinazionale dei capitali a prestito (con un tasso di interesse del 15%), chiamata in special modo a rimpinguare le casse dei sovrani di mezza Europa e a finanziare le loro ‘sporche’ guerre.

Ma il successo delle due compagnie fu di breve durata: appena 40 anni dopo la fine della ‘Gran Tavola’, tra il 1343 e il 1346, esse si resero protagoniste di una delle più clamorose ‘debâcles’ finanziarie di tutti i tempi e, nonostante le migliori premesse, non riuscirono a sfuggire alla legge vichiana dei ‘corsi e ricorsi storici’.  Causa del loro fallimento fu una delle più sgangherate storie di mutui di tutti i tempi, paragonabile in un certo senso alla bolla provocata dai mutui ‘subprimes’ del 2008. Ovviamente questa tipologia di contratto allora non esisteva, ma già era diffuso e ben lanciato un certo capitalismo d’assalto, poco lungimirante, specializzato nella concessione di ingenti prestiti ad altissimo rischio senza nessuna garanzia a copertura: si trattava in breve di pura speculazione, resa ancor più pericolosa da una fiducia illimitata nelle potenzialità del mercato. E le conseguenze furono esattamente le stesse di oggi: la crisi provocò l’insolvenza dei debitori e fallimenti a catena nel sistema finanziario, con conseguente fine del credito e crisi endemica dell’economia reale. Gli sviluppi delle vicende fiorentine, oltre a ricalcare il montare della crisi che ha segnato la storia attuale su scala planetaria, ebbero però risvolti ben più pesanti rispetto a quelli provocati dalla caduta dei Bonsignori: i danni procurati da questi ultimi rimasero infatti circoscritti  a livello locale, incidendo solo sul tessuto connettivo senese, mentre il dissesto delle banche fiorentine finì per coinvolgere in negativo l’intero sistema economico della penisola.

Ma andiamo con ordine. Il catalizzatore di questa vicenda fu Edoardo III, re d’Inghilterra, fondatore dell’Ordine della Giarrettiera (quello del motto ‘Honi soit qui mal y pense’) e principale fautore della Guerra dei Cent’anni (tanto bravo a sfilare giarrettiere alle dame della sua corte quanto a infilare insuccessi militari…). Le ambizioni politiche di questo sovrano esigevano somme sempre più ingenti di denaro e la sua inesauribile fame d’oro e di liquidità  poteva essere soddisfatta solo dalle casse delle famiglie fiorentine, che maneggiavano da sempre immensi capitali. Sicuri dello ‘status’ del contraente, i Bardi e i Peruzzi effettuarono un’operazione ‘subprime’, che il re garantì unicamente con la sua parola e il suo prestigio di monarca incoronato e unto dal Signore. Le cose filarono lisce fino al 1337, ma quando le mire inglesi puntarono verso Sud, tutto precipitò: Edoardo cercò infatti di mettere le mani sul trono francese, arrivando ad autoproclamarsi re di Francia prima ancora di aver vinto la guerra. Grave errore di valutazione, perché la vittoria era ancora ben lontana nel tempo e nello spazio. In ogni caso, in quel momento, i Bardi e i Peruzzi avevano già maturato nei confronti del sovrano inglese un credito di 125.000 sterline, una somma colossale per l’epoca: tornare indietro era dunque impossibile.

La situazione assunse toni drammatici quando Edoardo III, ormai invischiato in una guerra destinata a trascinarsi per un secolo, con l’armistizio di Esplechin sancì il fallimento delle spedizioni finanziate dai Fiorentini e annunciò di non essere in grado di rimborsare i mutui contratti. Il re di Napoli, Roberto d’Angiò, allarmato da questa mossa inaspettata, ritirò i suoi depositi presso le banche fiorentine, innescando una vera e propria corsa al prelievo; come se non bastasse, venne dichiarata la trasferibilità dei titoli di debito pubblico, che ne fece crollare il valore. Tra il 1343 e il 1346 entrambe le compagnie fallirono, schiacciate rispettivamente da un debito di 900.000 fiorini d’oro (i Bardi) e 600.000 (i Peruzzi), per un totale di 1.500.000 fiorini (il valore effettivo di un regno): le loro casse erano letteralmente prosciugate. Le conseguenze furono deflagranti e il ‘contagio’ irrefrenabile; il fallimento delle banche maggiori trascinò con sé, a cascata, quelle più piccole, tra cui gli Antellesi e gli Acciaiuoli. Crollò in parallelo anche il mercato immobiliare. I documenti d’Archivio offrono una lista di 350 cittadini fiorentini andati falliti, ma il numero reale degli imprenditori finiti sul lastrico fu certamente maggiore. Il cronista Giovanni Villani, impresario coinvolto suo malgrado nel crac ‘ante litteram’, scrisse a tal proposito: “La mercatanzia e ogni arte n’abassò e venne in pessimo stato”, aggiungendo che mai a Firenze c’era stata “maggiore ruina” e assenza di liquidità.  

Ma di lì a poco altro male si aggiunse a quello già in essere: nell’ottobre 1345 cominciò a piovere senza tregua fino alla primavera dell’anno successivo. Si susseguirono violente inondazioni che resero sterili le semine primaverili e con esse la speranza di una ripresa economica: il raccolto del 1346 fu misero, forse il peggiore di tutto il secolo. In circostanze normali, la tendenza sarebbe stata  quella di procacciarsi granaglie sul mercato estero, ma a Firenze non c’era denaro e non c’erano riserve di metalli preziosi, per cui era impossibile finanziare importazioni. La carestia che seguì al cattivo raccolto – una delle più gravi che la città toscana abbia mai sperimentato – aggravò la crisi. Come risposta il governo inasprì le imposizioni fiscali, ma con scarsi ritorni.

Ma al peggio non c’è limite: nel 1347 da una galea genovese proveniente da Caffa, nel Mar Nero, sbarcò nel porto di Messina un topolino che portava con sé un ospite indesiderato, il più nefasto e temibile che si potesse immaginare: una pulce infettata dal batterio della peste bubbonica (‘Yersinia pestis’). La malattia, endemica nelle remote regioni dell’Asia, faceva la sua prima apparizione in Europa e tutta la sua popolazione, priva di difese immunitarie, cadde falciata da una delle più gravi pandemie che l’umanità abbia mai conosciuto. Quella che passerà alla storia come la ‘morte nera’ svuotò città e campagne di metà popolazione: Firenze, già indebolita dalla crisi e dalla carestia, nel giro di un solo mese, l’agosto del 1348, passò da 90.000 a poco più di 45.000 abitanti, l’esatta metà.

Fu l’inizio di una depressione socio-economica senza precedenti: i traffici commerciali di qualsiasi tipo furono distrutti e il mercato entrò in confusione, le città svuotate, la fame e la miseria dilaganti. La voce del Villani continuava a farsi sentire, allora come oggi, ma sempre più flebile: “Non si deve tacere il vero per chi ha a fare memoria di queste cose, per dare ad esempio a quelli che sono a venire di usare migliore guardia”. Parole nel vento…

(Libero contributo)