di Antonio Polito
Maurizio Lupi, ministro della Repubblica, non indagato, dimesso. Vincenzo De Luca, candidato governatore della Campania, condannato in primo grado per abuso di ufficio, non dimesso. Francesca Barracciu, indagata, candidata governatore della Sardegna, dimessa; poi promossa sottosegretario (insieme ad altri tre sottosegretari indagati, sulla cui posizione pare che il premier stia ora riflettendo). Nunzia De Girolamo, ministro, all’epoca non indagata, dimessa.
Ce n’è abbastanza per chiedersi se esista un nuovo codice non scritto per il trattamento dei politici che finiscono negli scandali, e chi l’abbia scritto. Di certo quello vecchio è caduto in disuso. All’epoca di Tangentopoli bastava un avviso di garanzia per tagliare la testa a un membro del governo. Ma anche dopo, nella Seconda Repubblica, vigeva una prassi che potremmo definire sì «giustizialista», ma regolata. In sostanza consisteva nell’affidare ai pm e ai giudici la selezione della classe dirigente: a ogni provvedimento giurisdizionale seguiva una più o meno adeguata sanzione politica. Prassi poi codificata in legge con la Severino, che fissa nella prima condanna il limite oltre il quale scattano le punizioni, cominciando con la sospensione per finire con la decadenza in caso di sentenza definitiva.
Ma oggi, nell’era Renzi, la Severino è contestata per eccessiva rigidità, e infatti pur condannato De Luca si candida; mentre sembra essersi alzata la soglia di tolleranza per i non indagati.
La spiegazione potrebbe essere nello strapotere del premier: in realtà si dimette solo chi decide lui. E qualcuno perciò lo accusa di colpire di preferenza gli scandali degli altri, e di coprire quelli più vicini a lui; un classico caso di due pesi e due misure. Ma neanche questo sembra essere del tutto vero, perché fu Renzi a far dimettere il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, democratico, indagato, che non ne aveva alcuna voglia. Qual è allora il nuovo criterio?
Io credo che sia l’umore dell’opinione pubblica, di cui Renzi si considera un buon medium. Nel senso che il premier usa come metro morale il suo gradimento politico: se una condanna può essere perdonata dagli elettori (nel caso di De Luca, per esempio, parrebbe di sì, visto che ha vinto le primarie) lui lascia perdere, se capisce che può arrecargli un danno serio nel suo rapporto con l’opinione pubblica, come nel caso di Lupi, diventa inflessibile.
È un metodo a suo modo politico, certo più di quello giustizialista che non si può davvero rimpiangere; ma senza regole, e molto arbitrario. Soprattutto perché dipende da circostanze e dettagli casuali, spesso senza rilevanza penale, che possono molto influenzare l’opinione pubblica se sono mediaticamente efficaci. Un Rolex in regalo, per esempio, un abito di sartoria in offerta, un modo di parlare sgradevole o volgare al telefono, valgono mille condanne penali nel tribunale del popolo e dei media. E non è certo una novità. Berlusconi ha pagato molto di più in termini di consenso e di credibilità per il caso Ruby, nel quale è stato assolto, che nel processo per frode fiscale in cui è stato condannato.
È un processo tipico delle società di massa, ma pieno di incognite. Se infatti un’intercettazione è più importante di una sentenza, e diventa decisivo se farla conoscere o no, per riassunto o testuale, e il momento dell’inchiesta in cui la si rende pubblica, allora rischiamo che la lotta politica condizioni il corso della giustizia, invece che la giustizia influenzi la politica come avveniva vent’anni fa. Un giustizialismo alla rovescia, esercitato dalla piazza invece che dal tribunale. Non so se è meglio. Fu una piazza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù.
Antonio Polito