A duecento anni esatti dalla nascita, il nostro giornale rende omaggio al grande scrittore che non smette di farci interrogare sull’abisso
di Pietro Citati
Il 4 aprile 1866, lo studente Karakozov tentò di uccidere lo zar Alessandro II a Pietroburgo: Fëdor Dostoevskij fu sconvolto: corse dal suo carissimo amico Maikov, e insieme scesero nella strada, mescolandosi alla folla — quella folla di Pietroburgo e di Mosca — la sua folla, su cui Dostoevskij aveva scritto pagine memorabili. Con uno slancio quasi improvviso — quegli slanci che accompagnarono tutta la sua esistenza — Dostoevskij decise di lasciare la Russia: una Russia che gli sembrava insozzata dal Male e dall’infamia. L’abbandonò il 26 aprile 1867, insieme alla giovane moglie Anna Grigor’evna Snitkina, che aveva sposato poco tempo prima, e aveva vent’anni meno di lui. Salirono sul treno a Pietroburgo, accompagnati da pochi libri. Furono a Praga, a Venezia, a Bologna, a Dresda, a Baden, a Ginevra, a Vevey, sugli stessi treni o sulle stesse carrozze che non molto tempo prima avevano conosciuto Tolstoj. Il 14 settembre, a Dresda, Anna partorì una figlia, Ljubov’: pochi giorni dopo giunse il fratello di lei, raccontando le prime, sanguinose sommosse degli studenti russi.
Quando partirono, marito e moglie fuggivano i creditori, che minacciavano il carcere; e la famiglia di lui, che non aveva tollerato il matrimonio, e voleva tutto per sé — la persona, lo scrittore, i suoi libri e il suo danaro. Ci sono rimasti tre grossi quaderni — quasi seicento pagine fitte — che nel 1867 Anna, eccellente stenografa che Dostoevskij aveva conosciuto per il proprio lavoro, compose con i suoi minuti caratteri stenografici. Dostoevskij scriveva, taceva, chiacchierava volubilmente, ascoltava musica, s’infuriava, girava per Dresda e Ginevra; e la moglie, infantile e ostinata, registrava ogni evento, parola e pensiero sui suoi grossi quaderni. Temeva che il marito non la amasse, o fosse incapace di amare.
Già nel settembre 1866 Dostoevskij cominciò a scrivere le prime righe de I demoni — e poi si accorse che anche lui, seduto o in piedi davanti al tavolo della roulette, era un indemoniato, come i personaggi del romanzo che stava scrivendo. Per anni, non aveva sognato che roulettes, rosso e nero, pari e dispari, come i nichilisti sognavano distruzione. All’improvviso smise di giocare. Abbandonò la roulette, e scrisse alla moglie: «È VERAMENTE L’ULTIMA VOLTA». Scriveva di notte. Aveva torpori e flussi di sangue: temeva improvvisi assalti epilettici, che avvenivano soprattutto all’inizio del mattino: ma, come Kafka, poteva scrivere soltanto di notte.
I demoni fu un romanzo terribile: forse il più difficile, faticoso e bello della sua vita. Non era mai andato così in alto, così in basso, così lontano: negli abissi e nei cieli, tra gli angeli e i servi di Satana. Trovò un titolo, stupendo, I demoni , che sostituì il debole Invidia : scoprì una trama, che comprendeva quasi tutto quello che egli pensava su questo e l’altro mondo, e persino su Dio: Dio, Dio, nient’altro che Dio, perché, in fondo, per Dostoevskij era inutile scrivere d’altro. Quando cominciò a scrivere, temeva di perdersi chissà dove: ma, invece, I demoni riuscì il romanzo più bello della sua vita: molto più bello di Delitto e castigo , de L’adolescente , de I fratelli Karamazov ; e di quasi tutti i romanzi del XIX secolo, persino di Madame Bovary e della Chartreuse de Parme .
L’Apocalisse — quella autentica, russa — non la povera imitazione compresa nel Nuovo testamento, è diffusa in tutti i cuori. Non si capisce perché una cosa accada o non accada. Tutto è assurdo, insensato, insignificante: ma sopratutto rosso come l’Apocalisse. Bisogna essere caldi o freddi, mai tiepidi. Gareggiando con l’Apocalisse il narratore vuole rafforzare la Trinità del Male: Stavrogin, Kirillov, Pëtr Stepanovi? Verchovenskij. Manca un personaggio solo, Dio, che per molti non esiste, o non è mai esistito, o forse esisterà in un futuro remoto, se un personaggio come Kirillov diventerà — chissà perché, chissà come — dio, proprio Dio. Ma questo Dio non ha creato il mondo. Il mondo de I demoni si è creato da solo. È un romanzo sull’Ateismo e la Rivoluzione, che finiscono per coincidere, perché gli atei sono rivoluzionari e i rivoluzionari non credono in Dio — questo Dio inesistente, il cui nome viene tuttavia ripetuto di continuo.
Nel novembre 1869 Dostoevskij ha la prima idea di Stavrogin, il cuore de I demoni, da cui tutto muove e a cui tutto ritorna, e che poi si perde nel vuoto, perché appartiene a un mondo irrazionale e incomprensibile. Sappiamo che è figlio di Varvara Petrovna Stavrogina, sebbene le assomigli poco. Non abbiamo nessuna idea di chi sia il padre: certo un generale, che forse aveva partecipato alla guerra di Crimea. Ma conosciamo con precisione il ritratto del figlio. Non è, come il testo dice, «un malfattore ». Stavrogin è cupo, mostruoso, tirannico, sadico: ma, come dice Dostoevskij, è «il vero eroe del romanzo». Possiede un passato complesso, perché ha finto persino di essere un nichilista. È dominato e sovrastato dal disgusto: verso ogni cosa, verso, soprattutto, tutti i ridicoli esseri umani.
Dostoevskij non aveva mai tentato di creare un personaggio così vasto, rispetto al quale tutti gli altri sono creature limitate. Stavrogin è un mondo, un universo, un concentrato della letteratura universale. Ora è Amleto, ora Don Giovanni, ora Faust, ora Steerforth nel David Copperfield di Dickens. Dostoevskij (o il narratore) era «andato a cercare un grande eroe romantico ». Ecco lo spleen, la noia, la nostalgia dello straniero che non è mai qui, ma è prigioniero del carcere della vita. Ecco «la selvaggia sfrenatezza»: l’amore per la turpitudine, il desiderio di seduzione, il demone dell’ironia, che lo conduce verso i gesti gratuiti, come in un libro di Sterne. Sulle spalle di Stavrogin incombe la responsabilità più pesante che conosca un personaggio di romanzo. «Stavrogin» dice un appunto di Dostoevskij «è tutto». Egli è il cuore de I demoni: il «sole» verso cui guardano tutti gli altri personaggi; il punto al quale fanno capo Šatov e Kirillov, Pëtr Verchovenskij e Lebjadkin, Varvara Petrovna (la madre), Daša, Marja Lebjadkina, Liza, la moglie di Šatov: tutti i personaggi non sembrano possedere nessun’altra ragione di vita, tranne la sua.
Come Dio o il Demiurgo, egli li ha creati dal nulla, con un gesto di noncuranza sovrana. Prima che il romanzo cominci, egli ha inventato delle concezioni del mondo diverse e lontane, nello stesso momento, senza credere a nessuno, indifferente a ciascuno di loro.
A Stavrogin non importava nulla del bene, ma anche il male gli rimaneva estraneo: con la coscienza distaccata e divisa, osservava e ascoltava le cose più indifferenti: il fragore di un carro, la canzone di un sarto, un ragno rosso su una foglia di geranio, la paziente lancetta dell’orologio: tutte cose indifferenti, come il piccolo corpo di una bambina che aveva violato. Ma nemmeno il male lo liberava dal suo vuoto. Forse per questo non raggiunse la grandezza tragica del Satana di Milton. O, forse, per Dostoevskij non esisteva il Grande Malvagio. Stavrogin credeva di essere uno di loro, ma era soltanto «un piccole demone abietto»; e nella sua anima si nascondeva «un turpe sguattero di cucina », un «lacchè», che accompagnava come un’ombra scurrile i gesti del nobilissimo principe. Forse Stravrogin era pazzo: così molti dicevano. Tutti avevano paura di lui: specialmente quelli che talvolta senza nessuna ragione, erano costretti a battersi in duello con lui. Essere rivoluzionario era un altro dei suoi giochi. Sorrideva volentieri: sorriso pensoso e indefinibile, che si perdeva in una ironia misteriosa o in un groviglio di idee che nessuno comprendeva.
Così duro, Nicolaj aveva stranamente «il dono delle lacrime», come un romantico, e quello della malinconia: la Malinconia di Dürer. «Tutte le azioni del mondo» diceva «dipendono dall’esistenza di Dio», nella quale egli credeva e non credeva. Non sopportava la bruttezza, sebbene avesse sposato una zoppa. Per lui, come per Dostoevskij, esisteva soltanto la radiosa, fiammeggiante bellezza: capace di travolgere il mondo, e di trascinarlo verso il cielo.