Sorprenderà molti quel titolo antropomorfico «La schiena di Dio». Le virgolette indicano che siamo in presenza di una citazione. Bisogna arrivare a pagina 313 per identificarla: si tratta di un passo dei famosi Racconti dei Chassidim che Martin Buber raccolse e pubblicò nel 1950, attingendo al pozzo gorgogliante spirituale-narrativo della tradizione ebraica mitteleuropea. Scriveva questo pensatore viennese, riparato a Gerusalemme salvandosi dal nazismo: «Tutte le cose contraddittorie e storte che gli uomini avvertono sono chiamate la schiena di Dio. La sua faccia, invece, dove tutto è armonia, nessun uomo la può vedere».
Buber, che con Rosenzweig era stato autore di una suggestiva versione tedesca della Bibbia, in filigrana a questa immagine intravedeva un’emozionante esperienza di Mosè, desideroso di vedere in faccia quel Dio che gli aveva gettato sulle spalle il peso di traghettare un popolo riottoso verso la terra promessa della libertà. La risposta divina era stata glaciale: «Tu non potrai vedere il mio volto perché nessun uomo può vedermi e restare in vita». Gli aveva, però, riservato una concessione: «Ti porrò nella cavità di una rupe e ti coprirò con la mano finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (Esodo 33,20-23).
Nell’originale ebraico l’antropomorfismo è ben più pesante: Dio offre alla vista di Mosè ’aharaj, il «mio posteriore», un dato audace che sarà ritrascritto da Lutero quando affermerà che nel Cristo crocifisso, umiliato all’estremo così da “incarnarsi” al livello più basso dell’umanità mortale, sono esposti i posteriora Dei. Ora, strettamente parlando, il saggio imponente, che il teologo Francesco Brancato, docente a Catania, ha elaborato, si colloca, sì, davanti alla «schiena di Dio» che reca tatuato tutto il nostro limite, la caducità, le contraddizioni, la morte. Ma l’anelito finale è lo stesso di Mosè, quello di intuire – sia pure in un bagliore – il volto luminoso del divino, ossia la trascendenza, l’eterno e l’infinito, l’«altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», per usare una nota rappresentazione della morte coniata da Rilke.
È arduo, se non impossibile, tracciare la mappa di questo libro teologico-letterario tanto è immensa la folla dei convocati sulla scena, nel tentativo di gettare uno sguardo nell’abisso dell’oscurità della morte e del morire, ma anche di fissare gli occhi in quello zenit supremo di luce senza esserne accecati. In termini teologici, sul tappeto è posta la questione escatologica, ossia l’Oltre e l’Altro rispetto al presente, al flusso del tempo e soprattutto a quella frontiera esorcizzata ma inesorabile, la morte. Brancato è un teologo che ama le intersezioni: l’ha già fatto incrociando la teologia con la scienza, con l’arte, con la filosofia e ora con la letteratura.
Nella sua bibliografia, molto fitta, l’interrogazione escatologica è affiorata spesso, anche sotto la locuzione ecclesiale tipica di «Novissimi». Ora, senza dismettere i panni del teologo, si avvolge anche con quelli della cultura contemporanea che gli permettono di delineare un iniziale ritratto antropologico sull’«uomo e il suo destino». Ma il cuore della sua ricerca pulsa in pienezza quando si aggrappa alla «schiena di Dio», occupandosi del tema capitale della morte e del morire, paradossale nel suo essere contemporaneamente il più studiato ma anche il più ignoto. Come si diceva, l’attrezzatura che Brancato indossa – oltre a quella teologica – è appunto quella della letteratura, interpellando esplicitamente una ventina di scrittori, mentre nel palinsesto del suo scritto si intravedono decine e decine di altri autori e personaggi.
La sua pagina diventa, così, un intarsio di citazioni o di evocazioni che coinvolgono figure attese: come non interpellare su questa tematica Dostoevskij o Tolstoj, Mann o Pirandello, Leopardi o Bernanos? Ma ecco a sorpresa affacciarsi un Don DeLillo veramente originale nella sua «folla di domande», non necessariamente prive di risposte (si pensi a Punto Omega), nonostante la paura vanamente esorcizzata che la morte genera (e qui è significativo il rimando a Zero K). Altrettanto inatteso eppur importante è Philip Roth col suo L’animale morente, così “corporale” nel suo racconto di un’agonia che devasta il fisico aitante, vitale e sensuale del protagonista.
Sulla ribalta ecco apparire anche altri due ebrei dallo sguardo acuto sull’infrangersi della vita: da un lato, Yoram Kaniuk col suo drammatico Post mortem ove ci si imbatte nel curioso palindromo ebraico semanticamente dissonante m-t, «morto», t-m, «puro, innocente»; e, d’altro lato, Yehoshua delle Cinque stagioni di una lunga malattia, che approda all’«inevitabile fine» della paziente assistita dal marito infermiere (ma ora sarebbe da aggiungere il recente e impressionante Tunnel). È ovvio che il punto di partenza dell’escatologia, cioè la morte, sia il più affollato, anche perché è l’orizzonte che ci avvolge, ci sconvolge e alla fine ci travolge. Non per nulla due terzi del libro sono all’insegna di questa «luce tenebrosa», per usare un ossimoro del libro di Giobbe (10,22).
E dopo? Non è forse questa la brama del sapere del teologo e dello scrittore? Stando alla metafora di base, sarebbe il tentativo di vedere il «volto» di Dio che in verità non è del tutto proibito, come a prima vista appariva nel passo biblico sopra citato. Infatti, poche righe prima – senza temere la contraddizione – lo stesso autore sacro affermava: «Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia come uno parla col proprio amico» (Esodo 33,11). Eccoci, allora, strattonati proprio verso quelli che un tempo si chiamavano i «Novissimi», cioè il giudizio, l’inferno e il paradiso. La sobrietà qui è d’obbligo, come lo è il saper «custodire castamente la frontiera» del mistero, per usare un’espressione di Schelling.
Eppure la letteratura, come la teologia, ha cercato ripetutamente di puntare il suo faro anche all’interno di queste sfere, soprattutto in quella infernale oscura, più che in quella solare paradisiaca. In quest’ultima si trovavano più a loro agio i teologi: ad esempio, il gesuita tedesco Jeremias Drexel nel 1609 a Lione era stato capace di riempire ben 640 pagine per dipingere il suo Tableau des joyes du paradis, così da far venire l’acquolina (celestiale) in bocca anche al più renitente peccatore. In realtà, i ritratti letterari più intensi ed estesi Brancato li scopre nell’inferno: da quello “disperato” del Doktor Faustus di Mann o dei romanzi di Bernanos a quello “im-personale” dell’incomunicabilità o dell’amore che muore di Kafka o Dostoevskij, così come impressionante è il paesaggio desertico di DeLillo sul quale si affaccia un sole spento, per rimandare a Cormac McCarthy (il pensiero va a Il buio fuori).
Si andrebbe avanti ancora a lungo inseguendo i panorami teologico-letterari aperti da Brancato, che rivela un’insaziabile capacità di lettura navigando nel mare della cultura contemporanea. Il suo è un libro che si legge quasi come un racconto “in-finito”, considerato anche il tema, destinatari possono essere tutti i lettori, credenti e non: l’avallo finale – come sempre limpido e acuto – di Franco Rella lo conferma. Ma noi sottolineiamo che questo saggio è necessario in particolare ai teologi perché, come ha osservato uno studioso di letteratura che è anche teologo, Marco Ballarini, è monca una teologia che ignora arte e poesia e alla fine risulta incapace non solo di dialogo con la cultura contemporanea ma anche di creare «una grammatica, sintassi e retorica dell’infinito».
«La schiena di Dio».
Escatologia e letteratura
Francesco Brancato
con un testo di Franco Rella,
Jaca Book, Milano, pagg. 330, € 28
Gianfranco Ravasi